Lo aspettavamo da tempo, sia per il fascino del soggetto rappresentato, che per la potenziale importanza all’interno del panorama cinematografico italiano. Diabolik è il nuovo film dei Manetti Bros, basato sul celebre fumetto concepito dalle sorelle Giussani, pubblicato per la prima volta nel 1962.
Di cinecomic degni di nota il panorama italiano ne ha conosciuti pochi e dispiace constatare le enormi potenzialità sprecate da questo lungometraggio, di cui, una volta usciti dalla sala, rimane poco e niente. Partendo dalla componente prettamente formale possiamo rilevare una cospicua quantità di riferimenti ed espedienti registici cari al cinema noir dello scorso secolo, con sporadici momenti più specificatamente legati al cinema hitchcockiano. Il risultato non delude a livello estetico, con qualche sequenza degna di nota, tuttavia nel complesso la sensazione è assimilabile a quella di una pellicola noir ben girata, ma dal fastidioso sapore di già visto. Una regia tanto derivativa quanto riuscita non rappresenta però il reale problema di questo Diabolik, colpevole di una serie di pesanti mediocrità. La prima di queste risiede in una sceneggiatura generalmente stanca e poco stimolante, che abbinata alla difficoltà di racchiudere una prima parte principalmente introduttiva, con una seconda più action, da alla luce una trama dai ritmi complessivamente compassati e a tratti semplicemente noiosa.
Nonostante ciò la rovinosa tara del film è da imputare, anzitutto, ad una recitazione e dei dialoghi gravemente insufficienti, i quali sembrano prendere a piene mani dalla modesta eredità della fiction televisiva nostrana. A stupire è l’aderenza a questa tendenza anche da parte del protagonista, Luca Marinelli, e del celebre ispettore Ginko, interpretato da Valerio Mastandrea, fin troppo legati ad un registro interpretativo impostato e poco espressivo. La scrittura e le indicazioni date a Marinelli sembrano essere la conseguenza di un fatale, seppur banale, errore nell’indagine psicologica di Diabolik: nei fumetti la sua caratterizzazione è alla base della raffinatezza espressiva dell’intera vicenda, grazie ad un sottile equilibro tra la caratteristica indole glaciale e un travolgente carisma, elementi probabilmente confusi con banale apatia nella sua odierna trasposizione cinematografica.
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A salvarsi da tali critiche la favolosa Miriam Leone che, nei panni di Eva Kant, porta a casa un dignitoso risultato, aiutata da uno spontaneo magnetismo. In questo senso sarebbe stato preferibile una focalizzazione più marcata nei confronti della compagna dello spietato ladro, dando la possibilità ai suoi autori di spaziare con maggiore freschezza sul debole intreccio.