Cinque anni fa la tragedia di Rigopiano. Giampaolo Matrone, uno dei sopravvissuti, ricorda quei momenti terribili
“Da quel 18 gennaio del 2017 sono andato a Rigopiano solo per le prime due celebrazioni. Oggi sarò allo stadio, a vedere la Lazio. La società ha invitato me e mia figlia Gaia ad assistere alla gara di Coppa Italia. Speriamo di vincere e di passare una bella giornata. Mi sono ripromesso, insieme a mia figlia, di far si che ogni 18 gennaio debba essere per noi una giornata spensierata”. A parlare è Giampaolo Matrone, uno dei superstiti della tragedia di Rigopiano. Cinque anni fa l’Hotel in cui alloggiava insieme alla moglie Valentina è crollato al suolo, portandosi dietro terrore, paure e tante vite. Tra queste anche quella della compagna. “Quest’anno per la prima volta, dal giorno della tragedia, mi sono lasciato convincere da mia figlia Gaia ad andare sulla neve. Non lo avevo mai più fatto da quel giorno, ma lo dovevo a lei. Non posso privarla della gioia di passare una giornata sulla neve, di gioia e felicità, solo per le mie paure”.
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I timori di Giampaolo sono stati immediatamente spazzati via. “La notte precedente ho sognato Valentina, che mi ha sorriso, ed era felice con noi. E’ stata la spinta per andare. Vuoi sapere come è andata? Non ho mai pensato a cinque anni fa. Appena siamo arrivati con Gaia abbiamo riso, scherzato e ci siamo tirati le palle di neve. La notte in albergo ho dormito sereno. Se è andato tutto bene è solo per merito di Valentina. Ne sono sicuro. Non c’è mai stato un solo momento di sconforto. Gaia ha vissuto due giorni splendidi: ha sciato, si è divertita. E’ impazzita per la neve. Ed io ne sono stato felicissimo”.
Cinque anni fa Giampaolo ha vissuto una tragedia impossibile da dimenticare, che ha segnato per sempre la sua vita. “Partimmo il martedì: mia moglie che lavorava in ospedale prese un giorno e io chiusi la pasticceria a Monterotondo. Arrivammo a Rigopiano e per raggiungere l’albergo venimmo accompagnati dagli spazzaneve, che permisero a chi lasciava la struttura di potersi allontanare e a noi di arrivare. Quando ci penso dico sempre che ci hanno scortati fino alla morte. Per salire misi le catene, ma fu molto complicato. Appena arrivato mi arrabbiai con il proprietario dell’albergo, che oggi purtroppo non c’è più. Alzai la voce, gli chiesi perchè non ci aveva avvisato delle condizioni critiche. ‘Se ce lo dicevi – gli dissi – saremmo venuti la prossima settimana. Ora che facciamo? Neanche possiamo andare a sciare’. Lui mi disse che mi avrebbe concesso un’ora in più alla Spa. Passammo la sera, poi la mattina tornammo alla Spa e alle dieci ci fu la prima scossa. Io volevo subito andarmene, ma era praticamente impossibile perchè lo strato di neve aveva bloccato le macchine e le strade. C’erano tre metri di neve che bloccavano tutto. In pratica fummo costretti a rimanere nella struttura, fino a quando non successe l’irreparabile“.
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Giampaolo ricorda alla perfezione ogni singolo istante di quei momenti. “Eravamo nella hall dell’albergo e stavamo aspettando che arrivassero gli spazzaneve. Al mio fianco c’era Valentina. Lei era vicina al muro e quando è arrivata la valanga è stata schiacciata contro la parete. Io invece sono volato via: non so nemmeno dove sono finito. E’ venuto giù tutto e mi sono ritrovato incastrato. La valanga c’è stata mercoledì intorno alle 4.50 di pomeriggio. Io sono stato tirato fuori sabato mattina”. Ore, giorni interminabili. “Non mi sono reso conto di cosa fosse successo. Credevo fosse la fine del mondo. Chiamavo Valentina, provavo a parlare con le altre persone. Poi è subentrato anche il panico. Mi chiedevo: ma se non sono riusciti a venire a spalare la neve prima, come possono arrivare ora per tirarci fuori? Non mi sono reso conto del passare dei giorni e del tempo. Ogni tanto svenivo, poi mi risvegliavo. Ricordo di aver sognato tante volte Valentina. Una volta era in macchina e mi riportava a casa. Altre volte le chiedevo dell’acqua e lei me la portava. Ecco, se devo ricordare qualcosa, penso alla sete che avevo in quei momenti”.
Giampaolo era solo: “Mi strappai la catenina con l’aquila della Lazio che avevo al collo perchè avevo paura di soffocare e provavo a chiamare mia moglie: chiamavo Valentina, gli altri. Dopo un pò mi rispose qualche altro sopravvissuto, ma ero molto lontano. Ero incastrato, con la testa appoggiata su una persona morta, il braccio destro incastrato sopra un trave. Potevo solo bussare con l’avambraccio sul cemento. Le gambe bloccate. Potevo solo fare si con la testa. Passavo i giorni tra dormiveglia e sogni: con l’immagine di Valentina sempre davanti ai miei occhi. Se ce l’ho fatta è grazie a lei. Sono sicuro che è lei che è entrata nei miei sogni e mi ha dato la forza. E’ come se fosse stato un angioletto che si è posato sulla mia spalla e mi ha dato la forza di andare avanti. Per Gaia“.
Poi, quasi in modo insperato, ecco i soccorsi. “Avevo perso la cognizione del tempo. Non avevo idea di che giorno fosse. Ogni tanto sentivo qualche voce che mi diceva che erano arrivati i soccorsi, ma non capivo neanche se si trattasse di un sogno o della realtà. Ricordo solo che avevo sete. Tanta sete. Quando mi hanno tirato fuori i soccorritori mi hanno detto che ero dieci metri sotto terra. Non avevano idea della posizione esatta in cui fossi. Hanno trovato con le sonde della finanza un telefonino e da quel segnale sono arrivati a me. Il soccorso alpino, Rubino, che io chiamo il mio angelo custode, ha iniziato a scavare vicino la mia posizione. La prima volta che l’ho sentito è stato venerdì sera. Ci siamo parlati. Ha scavato, con il suo gruppo per dieci ore e sabato mi hanno tirato fuori”. Oggi Giampaolo si divide tra la sete di giustizia e la voglia di andare avanti. “In questi anni ho fatto di tutto: ho parlato con quella persona che ha ricevuto le chiamate e non gli ha dato peso, con le autorità. Abbiamo l’obbligo di andare avanti per ottenere giustizia e verità. Non si può fare passare quello che è successo come una calamità naturale. E’ giusto che se ne parli, che si vada avanti”. Giampaolo ci sta riuscendo. Dopo anni difficili. “Il primo anno e mezzo è stato durissimo. Ho avuto quello che chiamano la sindrome del sopravvissuto: mi sono chiesto perchè proprio io? Ma poi, grazie all’amore per Gaia sono riuscito a guardare oltre. Da cinque anni vivo in simbiosi con mia figlia. Faccio da padre, da madre: mi piace fare una battuta e dire che siamo quasi marito e moglie. Lei si rende conto di tutti i miei sentimenti. Lei è una bambina forte, che è stata capace di andare avanti tra mille difficoltà. E’ stata la mia forza. Se sono sopravvissuto lo devo al pensiero di mia moglie e alla consapevolezza di fare tutto il possibile per lei”.