Il paradosso cinese, tra vetrina olimpica e realtà

Nonostante le immagini di facciata in cui vengono promossi i valori sociali e di inclusione, “dietro le quinte” delle Olimpiadi invernali in corso c’è sempre un Paese che perseguita le minoranze e i dissidenti

C’è una Cina beata e accogliente, pronta ad accettare il prossimo e le diversità. Poi c’è un’altra Cina, molto più intransigente e conservativa, che ancora oggi perseguita le minoranze. La prima è l’immagine che viene dipinta agli occhi esterni del mondo, quella propagandata e amplificata grazie alle Olimpiadi in corso, con tanto di cerimonia d’apertura dedicata a questi lodevoli ideali sul motto di “One World, One Family“. La seconda è invece la realtà che viene tenuta nascosta a livello internazionale, quella che non viene diffusa di fronte alle telecamere e che va avanti imperterrita nella sua opera di “conversione” alle idee del regime comunista che governa il Paese.

Tibet
Le proteste per la libertà nel Tibet in Cina (Ansa)

A livello mediatico viene mostrata una Cina aperta e tollerante, tanto da assegnare il ruolo di tedofora alla sciatrice di fondo Dinigeer Yilamujiang, nata ad Altay, nella regione autonoma dello Xinjiang, dove “convivono” abitanti di etnia “han” (la maggioranza dell’intero Paese, impiantata forzatamente nella zona nel corso degli anni) e la minoranza “uigura”. Ecco, lei fa parte proprio di quest’ultima, che in quanto turcofona e di religione islamica è stata (così come altre minoranze) oggetto storicamente di trattamenti discriminatori da parte di Pechino, volti a una “sinizzazione” forzata dell’intero stato. Basti pensare che anche la stessa tedofora viene chiamata in un modo diverso rispetto alla suo nome reale, Dilnigar Ilhamjan, proprio per renderla a tutti gli effetti “cinese”.

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Il paradosso cinese

Apertura Olimpiadi
La cerimonia di apertura delle Olimpiadi (Ansa)

Non è nemmeno la prima volta che il Partito Comunista Cinese utilizza questo espediente per veicolare un messaggio poco coerente con la realtà, visto che pure nelle Olimpiadi del 2008 a innalzare la fiaccola olimpica fu l’atleta uiguro Kamaltürk Yalqun, che però adesso si è trasferito in pianta stabile negli Stati Uniti, denunciando i crimini di Pechino nei confronti della sua etnia. A rendere ancora più evidente il paradosso comunicativo e la difformità tra apparenza e verità, poi, c’è anche da sottolineare il comportamento del Governo con il Tibet, un’altra storica minoranza oggetto di vessazioni in quanto a maggioranza buddista e di conseguenza contraria all’ideologia atea che la Cina vorrebbe in tutto il Paese.

Un esempio è l’abbattimento dello scorso dicembre di una statua del Buddha alta 30 metri a Drakgo (costruita con 6 milioni di dollari accumulati grazie alle donazioni dei fedeli), nella provincia del Sichuan, con la scusa della “mancanza di permessi”. Una motivazione già utilizzata in passato in casi analoghi, sebbene i fantomatici permessi fossero stati concessi in un primo momento e poi revocati. Nel corso della distruzione dell’opera, tra l’altro, sono state anche bruciate tutte le bandiere della preghiera tibetana. A seguire, per completare il tutto, a Natale il partito ha “regalato” ai bambini delle scuole della zona un volume a firma di Li Shen, “I principi dell’ateismo scientifico”. Insomma, “One World, One Family” per il resto del mondo. Ma dentro la Cina il discorso sembra valere solo se la pensi come il partito…

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