Forse è passato troppo tempo dalla primavera del 1939, quando la Germania fece sua la Cecoslovacchia come si occupa uno edificio abbandonato, senza sparare un colpo, se non per noia, o quasi.
E ancora più tempo è trascorso da quel patto di Versailles, vent’anni prima che, con le sue molteplici questioni territoriali irrisolte e, in molti casi, create per l’occasione, divenne un ticchettio silenzioso nascosto sotto il tavolo delle diplomazie europee. Un ticchettio destinato ad esplodere vent’anni dopo. C’è una regola non scritta del diritto internazionale che impone di non provocare nessuno, né direttamente né indirettamente. E subito dopo c’è un altro imperativo, ancora più importante del primo: non umiliare nessuno.
Al tavolo di Versailles, la Germania uscì affranta, sconvolta ed umiliata. Ecco, l’umiliazione fu il vero prezzo da pagare, più di qualsiasi altro onere imposto dopo la sconfitta subita nella Grande Guerra. Sulla povertà, la rabbia e il desiderio di riscatto il Terzo Reicht piantò il proprio vessillo e arrivò al giorno in cui contemplò per l’ennesima volta la cartina dell’Europa. Scosse la testa come sempre ma quella volta seguì il proprio disappunto: iniziò dall’Austria e continuò puntando il dito ai Sudeti, zona nevralgica tra Germania, Cecoslovacchia e Polonia. Così fece ed il ticchettio accelerò e cominciò ad essere udito, velocemente, da tutti. Dopo l’Austria toccò alla Cecoslovacchia: chi ha dimenticato il seguito può aprire i libri di Storia.
Umiliazione, dicevamo: per la Russia di oggi la provocazione si chiama Nato, il Patto Atlantico nato dopo la fine della secondo conflitto mondiale. Un’organizzazione che traeva le proprie ragioni geopolitiche dalla contrapposizione Occidente – URSS. Memori del caos nelle diplomazie europee sul finire degli anni ’30 gli Alleati intesero studiare diligentemente, anche di notte, per portarsi avanti con il lavoro e costruire, contro il nemico, un sistema di protezione a difesa dei Paesi che ne facevano parte. Tra questi, inevitabilmente, gli Stati Uniti. Il nemico era a Mosca, ovviamente. Dopo lo schianto dell’Unione Sovietica, il Patto sembrava perdere la propria ragion d’essere: peccato, avrà pensato qualcuno, e infatti no, nessuno preparò gli scatoloni. C’era stato un gentlemen agreements, tuttavia, e la diplomazia aveva assicurato al Cremlino che nessuno dei Paesi un tempo appartenenti all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche sarebbe entrato a far parte del Patto. Negli anni in cui una barcollante Russia riceveva pacche sulle spalle ma nessun sostegno economico dalla Comunità internazionale dopo il crollo della Cortina di Ferro, il Patto si espandeva velocemente verso Est, lasciando libero accesso a Paesi un tempo legati a filo doppio con il Cremlino: Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e in seguito Bulgaria, Paesi Baltici, Romania, Slovacchia e Slovenia. Una sola grande assente: la Russia.
E’ facile domandarsi chi, in casa Nato, è il padrone di casa, chi paga il banchetto, chi decide se lasciare qualcuno sulla porta. Il padrone è chi paga di più. Il report annuale del 2020 dice che gli Stati Uniti hanno messo sul piatto un budget da 785 miliardi di dollari, oltre il doppio di tutti gli altri Stati. Ecco, gli altri hanno portato un dolce, o una bottiglia di vino, ma chi tiene la tavola imbandita è uno solo. Ed è lui a decidere. Questo padrone di casa in terra altrui ha da tempo mostrato l’intenzione d’invitare a tavola uno Stato, che molto, troppo ha a che fare con la Russia e la sua storia, antica e recente. Il padrone vuole mettere la tavola imbandita sul confine, in Ucraina. In termini geopolitici una provocazione, né più né meno, aggravata dall’assenza, almeno apparente, di uno scenario da Guerra Fredda – e che, a dispetto della Storia, quello scenario ripristina nel breve volgere di poche ore. C’è una contesa territoriale così antica e profonda da sfiorare una lucida follia nella scelta di Putin di riconoscere le repubbliche del Donbass e spingersi fino a Kiev. Dall’altra parte c’è una voglia di provocare mossa da un’ignoranza e una supponenza di pari profondità ordita da un Biden solo pochi mesi fa fuggito da Kabul come l’ultimo dei codardi e ora pronto a strapparsi le vesti per Kiev.
Questo accade quando i gentlemen agreements sono gestiti da una diplomazia dimentica di sé stessa, che gestisce questioni delicate come un orologio di cristallo con un goffo sovraccarico di snobismo. Sì, c’è anche uno strano snobismo d’Ancien Régime, un post colonialismo razzista e manicheo, nel modo in cui la Casa Bianca e i suoi sodali, Downing Street in testa, hanno trattato la Russia negli ultimi trent’anni: una diplomazia rovesciata intesa ad allontanare più che a includere, come fossero spaventati da una presenza che parla ancora un linguaggio occidentale, ma con un forza implicita di maggiore ampiezza e profondità e un legame con il passato e i suoi valori ancora saldo, a dispetto di un Occidente che di quei valori vuole fare a meno, e alla svelta. Dallo snobismo all’umiliazione il passo è breve e le diplomazie occidentali non hanno fatto mancare un passo dopo l’altro nella medesima, ottusa direzione, fino ad arrivare al punto in cui siamo, nelle strade di Kiev.
Ecco allora che Putin non ha il diritto di trattare l’Ucraina come Kennedy trattò Cuba, il pezzo di terra con sopra il tavolo del nemico, come stava per diventare l’Ucraina. Due pesi, un nugolo d’ipocriti, e due misure: così s’impantana il diritto internazionale quando filtra con realpolitik e snobismo. Meglio tollerare tutto dalla Cina, allora, così differente da evitarci quello scomodo confronto a perdere che, implicitamente, la Russia chiede. Ed è razzismo anche questo, e ottuso cinismo, come fu permettere al Dragone, oltre vent’anni fa, di accedere all’Organizzazione Internazionale del Commercio con le conseguenze che conosciamo.
E cosa importa se la Cina, un miliardo e mezzo di anime, non è interessata ad elezioni democratiche: piccolezze, per la Casa Bianca. Non importa se la morte di 5 milioni di persone negli ultimi due anni ha avuto origine a Wuhan. Sono dettagli su cui il sorriso di Biden può volare leggero: i grandi non vanno importunati, se non hanno la sfortuna di parlare russo. Il gas di Mosca potrebbe mancare? La diplomazia con la cipria di Biden non si vergogna di chiedere al Qatar di colmare il divario. E poco importa alla Casa Bianca se il Qatar, dentro i propri confini, pervade la vita di oltre due milioni di donne e uomini grazie alla Sharia: a noi interessa Kiev invasa, nient’altro, prima della prossima fuga.
Il mondo è cambiato in una notte perchè la Nato ha voluto che restasse quello di prima: noi e loro, i nemici di sempre. Ora rischiamo di pagare un prezzo inimmaginabile nel cuore dell’Europa, perchè abbiamo permesso a Washington di condurre il gioco e ad alzare la posta ogni volta, in nome del proprio infinito desiderio di egemonia, fuori dai propri confini: così la Nato è diventata il cavallo di Troia dello yankee con il sorriso leggero. Non servono Cassandre per capire che le conseguenze di certi doni portano disastri. Potrà finire male o malissimo, ora. E, peggio, porrà finire in maniera molto diversa da come immaginiamo.