Il mondo biancoceleste piange la scomparsa di Pino Wilson, storico capitano del primo scudetto. Ecco una delle ultime interviste
Giuseppe Favalli e Stefan Radu negli ultimi anni hanno superato il suo record di presenze. Wilson si è fermato a quota 394, mentre gli ultimi due calciatori hanno abbondantemente superato le 400.
“Peccato perché nel 1980 e a causa del calcio scommesse venni fermato prima del termine della stagione. Altrimenti avrei mantenuto questo record. Tra l’altro era già pronto un accordo con il presidente Lenzini per un futuro da dirigente”.
E perchè non è stato rispettato questo accordo?
“Perchè è sopraggiunto il calcio scommesse. Sono stato squalificato e a quel punto ho deciso, come in una sorta di autopunizione, di non accettare un mio possibile ritorno in società. Nonostante molti abbiano spinto per farmi cambiare idea, non ho sentito ragioni”.
Qual’è il suo primo ricordo del 1974?
“Il 1974 è stato un anno magico. Conquistammo lo scudetto, formammo un gruppo unico e creammo con i tifosi un rapporto eccezionale. Tutte le volte che ritorno con la mente a quella stagione, non posso dimenticare l’emozione che provavo ad ogni ingresso in campo. Penso a Lazio – Foggia, ma anche ad altre partite. A Lazio – Juventus, ad esempio, ci fu uno spettacolo eccezionale. Migliaia di bandiere, di sciarpe e non ricordo un solo pezzo di marmo libero sugli spalti. C’era il pienone”.
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Quanto è stato difficile mettersi alle spalle la delusione per uno scudetto perso sul filo di lana e preparare nel miglior modo possibile una nuova stagione?
“La delusione fu tanta, non c’è dubbio. Fu difficile da smaltire. Anzi, molte volte pensando a quell’epilogo ti tornava il cuore in gola. Da un punto di vista psicologico fu importante una tournèe che facemmo negli Stati Uniti subito dopo la fine del campionato. Ci servì a scaricare la rabbia. Poi, con l’inizio del ritiro pre campionato, iniziammo a concentrarci sulla nuova stagione, e la delusione si trasformò in voglia di riscatto”.
Il suo primo ricordo di quella maledetta partita del San Paolo?
“La delusione immensa che si respirava nello spogliatoio e la voglia di vendicarci al più presto. Per un calciatore è difficile dimenticare quando vedi certi episodi, e noi non dimenticammo nulla di quella domenica”.
Inizia la nuova stagione e i riflettori, per forza di cose, vengono puntati sulla Lazio. Nonostante tutto Maestrelli parla esclusivamente di salvezza. A distanza di anni si è mai chiesto perché? Scaramanzia o qualcos’altro?
“Secondo me in quelle parole c’era tutta l’umiltà del personaggio. La voglia di giocarsi l’obiettivo partita dopo partita, e un senso di protezione nei nostri confronti. Noi lo abbiamo sempre seguito, ma da gennaio in poi abbiamo capito che potevamo ambire a qualcosa di più sostanzioso. Senza montarci la testa, altrimenti Maestrelli se ne sarebbe accorto, ma pensando in grande”.
Come era il suo rapporto con Maestrelli?
“Talmente stretto e profondo che non saprei trovare le parole adatte. Era una persona eccezionale. Per noi fu come un secondo padre. Vivemmo a stretto contatto con lui per tante ore al giorno, al di la degli allenamenti, ed erano momenti bellissimi. Ci è sempre stato vicino, ci ha protetto nei momenti difficili e ha sempre cercato di tenerci lontano da eventuali casini. Quando avevo un problema, o mi sentivo triste per qualsiasi motivo, potevo sempre contare su di lui”.
C’è un episodio che ricorda con maggiore attenzione e che la lega a lui?
“Anche se non me lo ha mai detto, so per certo che ha fatto di tutto per farmi convocare in nazionale. Quando arrivavano le convocazioni e il mio nome non era stato inserito dal c.t. dell’Italia, non mancava di rincuorarmi e di prestarmi qualche attenzione in più. Sapeva quanto ci tenessi”.
Durante i ritiri era più un fratello maggiore o un controllore?
“Su i nostri ritiri se ne sono dette tante. In realtà Maestrelli sapeva benissimo che ciò che ci consigliava veniva fatto. A lui premeva che capissimo i movimenti che pretendeva in campo. Il ritiro diventava importante per gli ultimi consigli prima del match e per aggregare ulteriormente la squadra. Ci lasciava piuttosto liberi. Era una sorta di contratto di reciproco rispetto, anche perché sapeva che tutto ciò che facevamo in campo, veniva dedicato a lui. Non a caso ogni goal veniva suggellato da un abbraccio con lui, e non certo con un giro di campo con la maglietta alzata”.
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C’era qualcuno a cui Maestrelli era costretto a tirare spesso le orecchie?
“Probabilmente D’Amico (parole accompagnate da una fragorosa risata) ma soltanto per motivi di tavola. Spesso chiedeva anche a noi giocatori di controllare da vicino Vincenzo”.
Un altro personaggio indimenticabile di quella Lazio era il presidente Lenzini.
“Ti blocco subito. Non mi chiedere un giudizio perché sarebbe identico a quello di Maestrelli. Ho avuto la fortuna di conoscere due persone encomiabili. Il presidente era un galantuomo, una persona a cui bastava una stretta di mano per suggellare un contratto, che rispettava fino alla fine. Un signore con la S maiuscola. Quando oggi mi trovo a parlare di lui, dico sempre ai miei interlocutori: ‘se dovete dire qualcosa di negativo su Lenzini, non fatelo davanti a me’. Secondo me ha dato più di ciò che ha ricevuto dal mondo del calcio, nonostante la soddisfazione di essere stato il primo presidente a vincere lo scudetto nella Lazio”.
Il suo rapporto con lui?
“Molto stretto. Ogni mattina mi chiamava alle otto e voleva vedermi per discutere di tutto. Mi raccontava quello che gli era capitato e spesso mi chiedeva qualche consiglio. Per me era un onore. Come ho già detto, si fidava di me ed era pronto ad affidarmi la carica di direttore generale”.
Essendo stato il suo confidente avrà capito quale fosse il suo cruccio.
“Il fatto di essere spesso contestato. Per la Lazio dava tutto se stesso, e soffriva quando i tifosi se la prendevano con lui. Noi come giocatori ci siamo sempre schierati dalla sua parte”.
Prima di iniziare ad analizzare la stagione, vogliamo spiegare che giocatore era Pino Wilson?
“Un difensore che faceva della concentrazione la propria arma. Non credo mai di essermi deconcentrato durante i novanta minuti. Guardavo e pensavo esclusivamente alle fasi di gioco. Da un punto di vista tecnico il mio punto forte era il tackle, gli interventi in scivolata e il colpo di testa. Il punto debole sicuramente il piede sinistro. Maestrelli provò a migliorarmi, ma forse non avevo né voglia, né tempo”.
Di goal non ne ha mai segnati tanti, ma quello realizzato alla Sampdoria alla seconda giornata fu importantissimo.
“E impossibile da dimenticare aggiungo io. Mancavano sei o sette minuti alla fine. Quando Frustalupi crossò al centro, mi ritrovai nel bel mezzo dell’area e riuscii a controllare il pallone. Quei secondi che passarono dal tiro al goal furono interminabili. Poi, quando le rete si gonfiò, non capii nulla e mi ritrovai in panchina, abbracciato a Maestrelli e a tutti i compagni. Fu il mio primo goal in serie A”.
Dopo un buon inizio arriva un periodo negativo, contrassegnato dalla sconfitta di Torino.
“E dalla tranvata, come si dice a Roma, presa con l’Ipswich. Li fummo bravi a non perdere la testa e a ripartire immediatamente. Vincemmo a Cagliari, con un gran goal di Giorgio, e riprendemmo il cammino in campionato. Sapevamo di essere una squadra tecnicamente discreta, ma caratterialmente fuori dalla normalità. La nostra grinta fu l’arma vincente. Ad un certo punto capimmo che in trasferta, alcune squadre avevano timore di attaccarci, e noi ne approfittammo”.
Capitolo derby.
“Emozioni indimenticabili. Franzoni ha vissuto due o tre anni nel ricordo di quel goal, così come Nanni verrà sempre ricordato per quel bolide sotto l’incrocio dei pali. Il derby è sempre stata una sfida fuori dal normale, una partita secca. Quello che provi prima, o dopo, non te lo fa provare nessun’altra sfida. Poi c’era Giorgio che la viveva in modo del tutto anormale. Era tesissimo prima di una stracittadina e riusciva a sfogarsi in campo”.
Da gennaio in poi non avete mai lasciato la vetta della classifica. C’è stato però un momento in cui avete temuto di non farcela?
“Ad essere onesto no. La nostra forza è stata quella di non sottovalutare mai nessun avversario e di mantenere una buona regolarità nei risultati. Al termine di ogni sfida ci concentravamo immediatamente sui nostri prossimi avversari. Un modo per tenere alta la concentrazione”.
Ci racconta cosa è successo durante Lazio – Verona?
“Una partita da brividi. Al termine del primo tempo siamo sotto 1-2; un risultato inatteso. Abbiamo fatto le scale che ci separavano dagli spogliatoi, il tempo di arrivare all’ultimo scalino e tutti di nuovo in campo a braccia conserte ad aspettare gli avversari. Una decisione che prendemmo insieme. La gente sugli spalti non capì subito cosa stava accadendo, ma poi iniziò ad incitarci. Quando il Verona tornò sul terreno di gioco capì che davanti aveva undici giocatori avvelenati”.
E la gara finì con la vittoria della Lazio per 4-2. Arriviamo alla fatidica Lazio – Foggia..
“La notte prima della gara non riuscii a dormire. Già normalmente prendo sonno a fatica, figuriamoci prima di un match così. Credo di aver dormito al massimo un paio d’ore la mattina, prima di alzarmi definitivamente. Passai la sera in compagnia di tutta la squadra. Poi al risveglio provai un’atmosfera strana. Sembrava tutto diverso, anche i gesti più consueti. Ricordo che anche la messa con Padre Lisandrini, un’altra persona eccezionale che non ti diceva mai cose banali, era diversa dal solito. Uno dei ricordi più forti fu il viaggio in pullman prima di arrivare allo stadio. Ci fu un silenzio clamoroso. Nessuno voleva dire nulla, non volava una mosca neanche ad andarla a cercare. Negli spogliatoi poi, ognuno cercava di effettuare il riscaldamento ripercorrendo gesti fatti prima di altre partite vittoriose. Maestrelli ci chiese concentrazione e forza. Parole che riecheggiarono nello spogliatoio e che ci portammo fino all’ingresso in campo”.
Il primo tempo finisce 0-0.
“Nonostante tutto mantenemmo la calma. Ero convinto che avremmo vinto. Probabilmente se non fossimo riusciti a segnare, sarebbe entrato un tifoso e avrebbe spinto la palla dentro la porta. Non si poteva non vincere, Non si poteva non dare a tutta quella gente una soddisfazione che attendevano da una vita”.
Nel secondo tempo arriva la svolta.
“Durante il calcio di rigore non ebbi il coraggio di guardare l’esecuzione di Chinaglia. Mi girai verso Pulici e aspettai la sua reazione. Era anche quello un rituale. Quando alzò le braccia capii che ce l’avevamo fatta. Al termine della gara ci fu l’invasione e provai un’emozione contrastante. Scappai, ma allo stesso tempo volevo essere preso per festeggiare con i tifosi. Sensazioni che puoi vivere solo sul momento. Ricordarle non ti regala le stesse intensità”.
In conclusione le faccio un po’ di nomi: Re Cecconi.
Prima della risposta passano alcuni secondi. La voce si fa più roca e l’emozione è facilmente palpabile. “Non so cosa dire. Anche per lui ogni aggettivo risulta scontato e superfluo. A lui mi legano ricordi indimenticabili, come a Maestrelli, Lenzini, Frustalupi, Gigi Bezzi, Ziaco. Posso solo dire che avrei volentieri fatto a meno dello scudetto in cambio di quello che è poi successo”.
Chinaglia?
“Che piaccia o no, Giorgio Chinaglia è la Lazio. E’ stato il condottiero di una banda di matti che ha fatto impazzire tutto il popolo laziale”.
D’Amico?
“Grande giocatore. Uno di quelli che avrebbe fatto la fortuna di diverse squadre di oggi”.
I tifosi?
“Straordinari, impagabili. La vera forza di questa squadra. La passione della gente è l’unica cosa che il calcio non potrà mai cambiare”.