E’ arrivato il film più importante dell’anno… è arrivato The Batman.
Dopo l’esplosione del cinema pop, con Spiderman: No Way Home, l’attesa per un cinecomic veramente svincolato da un progetto più esteso, si è fatta a tratti insostenibile. The Batman di Matt Reeves ci ha promesso per mesi un cinecomic dal carattere indipendente, capace di emozionare attraverso una visione puramente autoriale di un’ icona supereroistica. Trovare una propria identità, alla luce delle storiche opere di Burton e Nolan, è un arduo compito, per il quale occorre eleganza, competenza e coraggio… Reeves ci è veramente riuscito?
La forma vale il contenuto?
The Batman è un opera mastodontica, in cui la quantità smisurata di elementi trattati, dovrebbe mettere in costante pericolo la qualità degli stessi. Il risultato finale, in realtà, colpisce proprio per la gestione sbalorditiva dei ritmi narrativi: le tre ore, un’esorbitante numero di informazioni e la presenza di svariati elementi da sviluppare, convivono in un’amalgama scorrevole e perfettamente comprensibile. L’intreccio di The Batman sfoggia la sua complessità attraverso una narrazione sempre chiara e accessibile, coadiuvata dal poderoso contributo delle immagini. Proprio nelle immagini, la pellicola si presenta allo spettatore in tutta la sua cura: la perpetua variazione dei toni di nero, rosso e giallo, dona un’esplicita espressione ad ogni scena, estrinsecando molto del non detto e rimandando prontamente alle opere di David Fincher, dalle quali il film eredita sia forma che contenuto. Ciò nonostante, una gamma cromatica così limitata, rischia a tratti di stancare un occhio desideroso di maggior dinamica e alimenta uno sterile, seppur inevitabile, confronto con l’orgasmo visivo delle pellicole di Burton. Matt Reeves muove la macchina da presa con precisione e minuzia dei particolari, trovando il perfetto incontro tra regia invisibile e ostentato esercizio di stile. Il risultato è una composizione visiva ai limiti della perfezione, anche e soprattutto nell’ardua gestione delle scene più concitate: inseguimenti e colluttazioni sono semplicemente i più esaltanti della saga, capaci di suscitare un certo imbarazzo nel ripensare alle confuse soluzioni formali adottate da Nolan. A completare il prezioso quadro tecnico, ci pensano Michael Giacchino e la sua onnipresente colonna sonora, senza la quale verrebbe meno l’intera impalcatura emotiva della messa in scena.
Il perfetto film su Batman: meglio di Nolan e Burton?
L’intreccio è un ulteriore vanto della pellicola, grazie al meticoloso studio di una sceneggiatura di ferro (o quasi). L’impostazione da thriller investigativo si articola nella centellinata evoluzione della trama, al cui interno apprezzeremo, come mai prima d’ora, le spiccate doti investigative dell’uomo pipistrello, accompagnato dal fedele Jim Gordon (Jeffrey Wright) e dalla splendida Catwoman (Zoë Kravitz). Come anticipato negli scorsi mesi, all’interno del lungometraggio troviamo sia Carmine Falcone (John Turturro) che il Pinguino (Colin farrel), ma la minaccia più concreta per il cavaliere oscuro sarà rappresentata dall’Enigmista. L’inquietante personaggio interpretato da Paul Dano, costringerà Bruce Wayne a scavare negli anfratti più oscuri della propria mente, mettendone in discussione le scarse e flebili sicurezze. Robert Pattinson interpreta il Bruce Wayne più tormentato e fragile di sempre, portando in scena un preciso ermetismo espressivo, permeabile solo alla narrazione extradiegetica del suo diario.
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Nel corso della vicenda, il giovane Batman sarà costretto ad imparare la dolorosa differenza tra vendetta e giustizia, percorrendo il disturbante percorso tracciatogli dall’Enigmista. La commovente catarsi del vigilante di Gotham è resa possibile solo dal brillante confronto con l’Enigmista, con il quale Bruce scoprirà di condividere fin troppo. Messa in scena e dialoghi rendono quasi istintivo un parallelismo con il Joker di Heath Ledger, con il quale sono presenti ponderate analogie, volontariamente concepite all’interno di un sottile citazionismo. L’Enigmista di Paul Dano, come Ledger nel Cavaliere Oscuro (2008), è il vero motore drammaturgico della pellicola e ne diviene il punto di partenza e quello di arrivo. Sebbene la struttura del suo arco narrativo e i relativi temi scaturiti, stupiscano in quanto a qualità dell’esecuzione, la ricercatezza e il fascino dei taglienti dilemmi filosofici del Joker, non conoscono ancora rivali.
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L’assenza della raffinatezza intellettuale del Cavaliere Oscuro di Nolan, ma soprattutto di quell’indefinibile elemento di carismatica e irrazionale poesia dei personaggi burtoniani, ci lascia nel buio della sala con un film promosso con lode, alla razionale analisi delle sue componenti, ma difficilmente ascrivibile all’esigente e altisonante definizione di “capolavoro”.