Fabio Argentini, giornalista da sempre vicino ai colori biancocelesti, ci regala un ricordo di Pino Wlson, bandiera laziale.
di Fabio Argentini
Il lungo cammino sta terminando. La beffa dell’anno precedente è vicina eppur così lontana. Il Foggia, che deve salvarsi, giocherà sicuramente con il coltello tra i denti. Ma non ci si può fermare davanti al Foggia, dopo un anno così. La gente è arrivata prima dell’alba. I primi sono lì dalle sei del mattino. L’Olimpico non ha mai visto tante persone e mai più le vedrà: in nessun evento sia esso un Mondiale, un Europeo, un’Olimpiade, una finale di coppa. Lazio, Roma, Nazionale. Niente.
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Chi non è riuscito a trovare quel tagliando si presenta lo stesso sperando in un acquisto clandestino o pensando di scavalcare la recinzione: in moltissimi lo faranno. Altri riempiranno i posti in piccionaia sulla collina dietro la Curva Nord o al Don Orione dove c’è quella madonnina dorata cui i laziali si rivolgeranno oggi, nel giorno più importante, e continueranno a farlo anche nei momenti bui che arriveranno copiosi quasi a rimproverare quella Lazio di essere arrivata troppo in alto.
La partita è prevista per le 16. L’attesa sotto il sole è lunghissima. L’arbitro Panzino di Catanzaro guida le squadre fuori dal tunnel. Da ogni lato le bandiere, attaccate l’una con l’altra. Difficile anche riuscire a sventolarle.
Un muro. Bianco e celeste. Sembra disegnato su una quinta di un teatro.
Tutto è di quei due colori salvo quella fascia rossa che spunta dal tunnel. Quella del Capitano che si guarda intorno e poi punta il centrocampo seguito dai suoi.
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Per anni generazioni di tifosi sono cresciuti con quell’immagine. Negli occhi (e nel cuore) di chi era presente quel giorno. Nelle foto del Momento Sera, l’unico giornale che in tempi di bianco e nero usciva con la copertina e le pagine centrali a colori. E, alla fine delle scale che portavano nel seminterrato di Via Simon de Saint Bon, la sede dei tifosi. Una gigantografia incastonata in una cornice in legno che ha coccolato appassionati di ogni età. I primi nell’era del tifo organizzato. Giovani ormai uomini, figli e oggi padri: i vecchi pionieri cresciuti con Wilson, Chinaglia e Re Cecconi che allora era anche un coro.
Quell’immagine era ed è nel portafogli persino dell’arbitro Panzino. Di Catanzaro. Un giorno lo abbiamo incontrato e ci ha mostrato quello scatto racchiuso e protetto dalle insidie del tempo in una plastica senza più la sua trasparenza. È li da tanti anni e molti di quei protagonisti, non ci sono più. Non ci sono Felice e Giorgio, non c’è Frusta e nemmeno Cecco. Non c’è Facco, non c’è più Maestrelli, Bob e, con loro, tutta quella panchina leggendaria.
Quella fascia rossa, quella foto, quella famiglia erano l’orgoglio di un capitano passato alla storia per la decisione dei tuoi tackle, per l’autorità con la quale si rivolgeva ad arbitri e avversari che, di lui, avevano un rispettoso timore.
Eppure, ho visto commuoversi tante volte quell’uomo così risoluto in campo. Un leader in grado di sfidare le tempeste di uno spogliatoio incandescente – i cui componenti lo chiamavano semplicemente e rispettosamente “Capitano” – ma totalmente incapace di dominare i sentimenti legati a quella che lui ha considerato la Sua famiglia dal lontano 1969 ai giorni nostri, nella buona e nella cattiva sorte.
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L’ho visto commuoversi quando raccontava le emozioni di quell’ingresso in campo. E quando, tanti anni dopo, decidemmo, insieme ai tifosi della Nord, di dare vita a un bandierone, nel corso del suo evento “Di padre in figlio”, in cui in primo piano, davanti a tutti gli altri, c’era la Sora Gina che, al campo di Tor di Quinto, lavava e cuciva le magliette. E che, il 13 maggio del 1974 cominciò a cucire anche lo scudetto tricolore sul lato sinistro, quello del cuore.
L’ho visto spesso commuoversi quando raccontava episodi di quegli anni. Non si stancava di farlo e ci spiegava, “se la gente continua a sognare con quei racconti vuol dire che quella squadra, quegli uomini sono usciti dalla storia ed entrati nella leggenda. Di questo dobbiamo essere fieri. È una cosa rara”.
L’ho visto commuoversi quando raccontava di Chinaglia accanto a Maestrelli, uniti anche dopo la morte. Il capitano, fedele ai suoi doveri, aveva fatto di tutto perché Giorgio riposasse nella stessa tomba, accanto all’allenatore che per lui era un secondo padre. E l’ho visto piangere quando ha troppe volte salutato i suoi compagni andati via prematuramente. Cercando di farsi forza e sostenere la voce sul leggio del sagrato. Ancora come un comandante al timone, coraggioso sul cassero. Ora saranno tutti gli altri, quelli che sono rimasti, a piangere per te.
Ciao Capitano