Uno studio su 9 pazienti, ritenuti “eterni positivi”, potrebbe rappresentare la chiave per analizzare le varianti.
Li chiamano “eterni positivi”, visti i numeri e le difficoltà a tornare negativi dopo l’infezione da Covid. Secondo uno studio inglese basato sulle mutazioni durante i lunghi periodi in cui convivono col il virus, potrebbero essere collegati alle varianti.
L’analisi condotta da un gruppo di ricercatori britannici del Guy’s and St Thomas’ Nhs Foundation Trust, si basa sullo studio di 9 pazienti che hanno convissuto a lungo con il Covid. In particolare su un paziente, positivo per 505 giorni fino al decesso. Rappresenta al momento l’infezione da Covid più lunga, ed ha superato quella di una donna immunodepressa che per 355 giorni non riuscì ad uscire dall’incubo.
Su queste basi si sviluppa un percorso di analisi che proverebbe le mutazioni del virus in alcuni soggetti immunocompromessi e con patologie. In 5 dei 9 casi analizzati sono state riscontrate mutazioni, e in un soggetto in particolare erano addirittura 10. Ecco perché i cosiddetti “eterni positivi” potrebbero essere la chiave per analizzare le varianti, mentre restano i dubbi sull’eventualità che possano essere la chiave per la diffusione dei nuovi ceppi.
“Volevamo indagare su quali mutazioni si verificano e se le varianti si evolvono in queste persone con infezione persistente. Alcune di queste varianti – ha dichiarato Luke Blagdon Snell, del Guy’s and St Thomas’ Nhs Foundation Trust –, si trasmettono più facilmente, causano malattie più gravi e indeboliscono l’efficacia dei vaccini. Una teoria è che possano evolversi in soggetti il cui sistema immunitario è indebolito da malattie o trattamenti medici come la chemioterapia, che possono avere un’infezione prolungata da Sars-CoV-2″.
Fra i soggetti dai quali è partito lo studio, la media del periodo in cui sono rimasti positivi è di circa 73 giorni, in due casi più di un anno. Si tratta di pazienti con malattie che indeboliscono il sistema immunitario e fra questi in 5 casi il virus aveva subito una o più mutazioni. In particolare su un paziente ne sono state tracciate addirittura 10.
“Questo fornisce la prova che le mutazioni insorgono nei pazienti immunocompromessi – osserva Snell –, ma è importante sottolineare che nessuno dei soggetti coinvolti nel nostro lavoro ha sviluppato nuove varianti che sono diventate successivamente varianti di preoccupazione diffuse”. Restano quindi dubbi sulla possibilità che le maggiori mutazioni poi riconosciute siano sorte da pazienti con simili patologie a quelle dei pazienti analizzati. E’ altrettanto chiaro però che fra questi ne siano state scoperte diverse, e di sicuro la traccia seguita a Londra potrebbe con ulteriori approfondimenti aiutare la scienza a capire quali siano le cause della continua evoluzione del virus.