Difficile trovare una decisione che possa mettere tutti d’accordo, ma la scelta di vietare agli atleti russi di partecipare al torneo di tennis ha aperto un profondo dibattito, con molti più pareri contrari rispetto a quelli favorevoli
Da una parte lo spirito che dovrebbe contraddistinguere ogni sport, quello che almeno in teoria dovrebbe andare contro ogni divisione o discriminazione. Dall’altra l’esigenza di dover mandare un messaggio per far fronte al contesto storico attuale, prendendo posizione contro tutto ciò che rappresenta chi sta turbando l’equilibrio mondiale con una guerra.
Impossibile trovare una decisione che possa mettere d’accordo tutti, a maggior ragione se si parla ad esempio di Olimpiadi, i cui partecipanti storicamente – come sottolinea il Messaggero – “non rappresentano il Paese, le Olimpiadi non sono competizioni nazionali ma individuali, nelle quali nessuna discriminazione è ammessa per etnia, lingua, sesso, religione e quant’altro ci va discriminando“.
Il paradosso sportivo di Wimbledon
Lo stesso discorso, in teoria, dovrebbe valere per atleti che non rappresentano la propria nazione, ma solo loro stessi a livello individuale. Un ragionamento che è stato portato avanti fino a questo momento anche nel tennis, ma che a partire da Wimbledon invece cambierà i suoi programmi. Il prestigioso torneo inglese ha infatti messo in atto un’opera di “derussificazione”, vietando di partecipare a Medvedev e Rublev (rispettivamente numero 2 e 8 al mondo), così come alla bielorussa Azarenka (ex numero 1). Una scelta al limite, che ad esempio non trova d’accordo l’ex tennista Adriano Panatta: “In Russia – ha detto in radio a “‘Un giorno da pecora’ – non andrei mai a giocare, perché è un Paese in guerra, ma proibire Wimbledon a Medvedev e Rublev, che oltretutto si sono dissociati dalla guerra, è una stupidaggine. A un ingegnere russo che lavora a Londra mica proibiscono di lavorare“. Una considerazione che fa indubbiamente riflettere.