Fallite le manovre del capo dello Stato per prolungare la legislatura. Dopo aver perso la sfida del Quirinale, il premier non voleva perdere la faccia
“Peggio di così non poteva andare. Spinto dalle pressioni di Sergio Mattarella e tornato per chiedere la fiducia in un Parlamento da cui non vedeva l’ora di scappare, Mario Draghi si è presentato a Palazzo Madama con un discorso che non lasciava margini di trattativa: prendere o lasciare…”. Lo dice il direttore de La Verità che traccia un’immagine anche sconfortante delle Istituzioni e su quello che sarebbe avvenuto nel giorno più difficile del Governo Draghi. “Siete pronti?”, ha detto dopo aver rimesso in riga Giuseppe Conte, Matteo Salvini e tutti gli altri quasi fossero scolaretti indisciplinati. La risposta è stata no: i partiti non sono pronti a seguire un premier tecnico, perché le elezioni sono alle porte. E così, a un Draghi che chiedeva pieni poteri, sostenendo di avere un mandato degli italiani («Ma quali?» ha chiesto Giorgia Meloni), il Senato ha tolto il potere, costringendolo alle dimissioni e facendo fallire le manovre del capo dello Stato per prolungare la legislatura.
Probabilmente è finita come lo stesso presidente del Consiglio desiderava, anche se certo non si aspettava tanto astio. Dopo aver perso la sfida del Quirinale, l’ex governatore della Bce non voleva perdere la faccia, ossia l’immagine di uomo forte, in grado di tener testa ai falchi della Bce e di imporsi in Europa. Fosse stato per lui avrebbe lasciato subito dopo la rielezione di Mattarella, ma dimettersi con una guerra alle porte non era possibile. Men che meno poteva svignarsela mentre l’inflazione galoppava e le bollette schizzavano. Sì, i fatti si erano incaricati di inchiodare al suo posto il presidente del Consiglio, anche se con il passare delle settimane e il trascinarsi dei contrasti nella maggioranza, non era difficile cogliere l’insofferenza dell’ex governatore della Bce.
Rimandato in aula a guadagnarsi la fiducia, sembrava fatta o per lo meno questo pensavano lassù sul Colle, fino a quando il premier ha cominciato a parlare. Pur non essendo un politico ma un tecnico, l’ex governatore sapeva meglio di altri che anche se avesse ottenuto un voto favorevole, l‘armata Brancaleone che lo sosteneva non avrebbe smesso di litigare. Per quanto il premier desse prova di determinazione, egli sapeva di avere le armi spuntate, perché non c’è patto che tenga quando le forze politiche sono in campagna elettorale. Se poi molti di coloro che siedono in Parlamento corrono il rischio di andare a casa per sempre, non ci si può attendere che abbassino i toni. Così Draghi li ha alzati per primo. Forse ha voluto sfidare coloro che gli dovevano votare la fiducia. Forse li ha intenzionalmente provocati.
Sia come sia, il risultato è che l’ex governatore della Bce toglie il disturbo, non si sa se con delusione o soddisfazione. Gli sconfitti in questa faccenda sono tanti, a cominciare dagli italiani che si dovranno sorbire un’estate di chiacchiere mentre il loro pensiero sarà rivolto a cose più urgenti, come il lavoro, l’energia, l’inflazione, il futuro, la guerra. A seguire, tra chi esce con le ossa rotte da questa vicenda, ci sono i 5 stelle, che sono più divisi di prima, ma anche il Pd, a cui il campo largo su cui faceva affidamento Enrico Letta si è improvvisamente ristretto. Si ricompatta (ma con qualche tensione, come l’uscita di Mariastella Gelmini da Forza Italia) il centrodestra, ma è una disfatta per il Quirinale. Mattarella si è speso come mai, telefonando ai leader dei partiti prima del voto, ma non è servito a nulla. E se si è arrivati a questo punto, cioè a bruciare persino la carta di Draghi, è soprattutto colpa sua. Da Conte in poi, la responsabilità di ciò che è successo in questi anni è tutta sua.