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Sport

30 anni fa l’esordio del Dream Team di basket, e nulla fu più come prima

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Mauro Simoncelli

Il 26 luglio 1992 alle Olimpiadi la squadra di Basket USA si presentò in campo con i professionisti della NBA e fu subito show time

Già sul finire degli anni ’80 si cercava un modo per organizzare lo sbarco dei professionisti nelle competizioni internazionali. Un sogno che diventa realtà nell’estate del 1992, con dodici giocatori e un coaching staff rimasti nella storia.

Il mondo si è fermato quando è stata annunciata la squadra statunitense di pallacanestro per le Olimpiadi di Barcellona 1992. Per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, la squadra degli Stati Uniti ha tra le sue fila le stelle della NBA Michael JordanMagic Johnson e Charles Barkley.

Poi arrivarono i supereroi

Fu una decisione storica, come quelle che cambiano davvero il corso degli eventi, quando venne deciso che alle Olimpiadi potevano davvero partecipare anche i professionisti del basket NBA, tutti capirono che poi nulla sarebbe stato mai più come prima: i supereroi stavano arrivando tra noi! Una squadra incredibile, pazzesca, memorabile, da sogno…Dream Team appunto. Erano le Olimpiadi del 1992 e avrebbero partecipato davvero i vari Magic Johnson, Larry Bird, Michael Johnson, Charles Barkley e Scottie Pippen, dei dodici giocatori in squadra, dieci sono stati nominati nel 1996 tra i 50 più grandi giocatori nella storia della NBA, l’elenco ufficiale dei 50 più grandi giocatori dei primi 50 anni del campionato. Ecco perché fu leggendario.

I motivi della scelta

Il Dream Team nacque sulle ceneri del fallimento della spedizione americana alle Olimpiadi di Seul del 1988, una delle tre sole edizioni dove la medaglia d’oro non andò alla nazionale a stelle e strisce. Fino ad allora ai giochi la nazionale americana partecipava con i migliori giocatori del college. Nel 1989 la FIBA votò per aprire i giochi al professionismo, e David Stern, l’allora Commissioner della NBA, capì che l’occasione era eccezionale per cercare nuovi mercati ed esportare il prodotto basket americano nel mondo. Gli USA affidarono al miglior coach dell’epoca, Chuck Daly, il compito di assemblare la squadra dei sogni e i 12  prescelti furono: Jordan e Pippen dei Chicago Bulls, Stockton e Malone degli Utah Jazz, Bird dai Boston Celtics, Ewing dai NY Knicks, Mullin dei Golden State Warriors, Robinson dei San Antonio Spurs, Barley dai Philadelphia 76ers e Magic Johnson del Los Angeles Lakers più, come dodicesimo, Laettner, il miglior talento del college da Duke. Erano in assoluto le stelle più luminose della NBA in quel momento. “E’ come se Elvis e i Beatles si unissero insieme” furono le prime parole di Coach Daly.

Una dimostrazione di superiorità imbarazzante

L’esordio il 26 luglio 1992 contro l’Angola, 116-42 e gli extraterrestri scesero definitivamente tra noi: 43,8 punti di scarto medio alla fine del torneo con la finalissima per l’oro giustamente come la più tirata tra tutte le partite, 115-87 a quella Croazia nata dalla disgregazione della forte ex Jugoslavia. Daly non ha chiamato un singolo timeout durante tutto il torneo. “Guardo alla mia destra c’è Michael Jordan, guardo alla mia sinistra c’è Charles Barkley o Larry Bird, non sapevo davvero a chi passare la palla” affermò Magic Johnson un giorno al termine di un incontro, facendo realmente intendere la portata di quelle partite.

L’inizio della seconda era

L’effetto pazzesco di quella squadra di fenomeni fu l’inizio della globalizzazione dell’NBA, ideata e così realizzata da Stern. In ogni nazione, in ogni playground sparso in ogni angolo del mondo volevano essere come Michael Jordan e I wanna be like Mike diventerà il lei-motiv della sua carriera. Da quel giorno partì la rincorsa agli invincibili eroi americani, a quelle creature aliene che avevamo visto solo in tv, ma che all’improvviso si erano materializzate alle nostre latitudini e diventarono il metro con cui misurarsi e provare, se non a battere, almeno ad emulare. E se trenta anni dopo il magico mondo della NBA parla molte più lingue anziché solo lo slang yankee è proprio per quello che accadde in quella lontana estate olimpica.

 

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Mauro Simoncelli