Il leader di Azione Calenda al centro di polemiche considerato che per qualche seggio in più ha deluso i suoi e gli alleati
In attesa di fare il pieno di voti, Carlo Calenda ha fatto il pieno di insulti sui suoi social. Non c’è da stupirsi. È due anni che gira le televisioni a parlare male del Pd e di M5S, a sostenere che ha lasciato i dem perché si erano accordati con i grillini e a giurare che si sarebbe presentato da solo alle elezioni. Non gli interessavano le poltrone, tantomeno i seggi parlamentari, spiegava. Il suo avrebbe dovuto essere un investimento sul futuro: si sarebbe candidato nel collegio uninominale di Roma 1, l’avrebbe vinto e con una dozzina di prodi pescati dalla sorte qua e là dal proporzionale avrebbe insinuato alla Camera e in Senato un drappello di competenti destinati a sbancare al prossimo giro.
Dentro il grande raccordo anulare, se raccontavi questa storia, ti sghignazzavano in faccia oppure ti guardavano tra il perplesso e l’esterrefatto, manco fossi appena sbarcato da Marte. E certo, a Roma, dove ha iniziato a fare guai che ancora era in calzoni corti, il Carletto lo conoscono bene, e l’avevano pesato: il leader di Azione è tante fregnacce e poca ciccia, proprio all’opposto di come appare.
Nel resto d’Italia però, dove di lui sapevano poco, in tanti ci avevano creduto: ecco qualcosa di nuovo, un figlio del sistema di potere che osa sfidarlo per il bene di noi contribuenti periferici. Si erano mobilitati in tanti, gratis, a selezionargli una classe dirigente adeguata sul territorio, impegnandosi e mettendoci la faccia. Ora queste nuove leve, valide e speranzose, devono lasciare il posto a Gelmini e mestieranti vari, dismessi dai loro partiti e che hanno ritrovato nell’ombelico di Carlo il centro del loro futuro politico. C’è perfino chi aveva visto in lui una sorta di nuovo Berlusconi. Si sapeva che Calenda sarebbe comunque finito per essere il pifferaio magico della sinistra, portando a Letta il consenso di tutti gli sventati moderati delusi che lo avrebbero votato. Il fatto che il leader di Azione abbia scelto di accordarsi con il Pd prima delle urne, e non dopo, è la prima cosa onesta e trasparente compiuta da quando ha deciso di candidarsi.
Il pallone sgonfiato aveva di fronte a sé una scelta chiara: presentarsi da solo avrebbe significato guadagnare circa tre punti in più di quelli che otterrà ora, arruolatosi nel campo sconnesso di Letta, ma, a causa dei meccanismi perversi della nostra legge elettorale, gli avrebbe consentito di mettere insieme meno seggi di quanti non ne avrà da alleato del Pd. Calenda doveva decidere se avere più stellette, ossia consensi, o truppe, ovverosia parlamentari. Con le prime si brilla in tv ma si pesa poco in aula e si conta ancora meno come leader, visto che un politico è misurato dai colleghi in base ai seggi e alle prebende che può garantire. Benché sia un ritorno a casa, quella del figliol prodigo Carlo non è stata una decisione di cuore, tantomeno di pelle, visto che finire nella schede elettorale nella stessa casella di Fratoianni, Di Maio e Speranza è auspicabile che gli abbian almeno fatto venire l’orticaria. Si è trattato di un calcolo politico nel quale il leader di Azione ha dimostrato un’abilità di trattativa da mercante levantino, poiché ha sottratto al Pd il 30% dei seggi disponibili nella coalizione.