C’è grande polemica tra i senatori, soprattutto in FI, sull’iter che ha permesso a La Russa di essere eletto al primo colpo
A fine giornata il conteggio si ferma a un numero: sedici. Sono i voti in più che hanno permesso a Ignazio La Russa di diventare presidente del Senato. A sedici, dunque, ammontano i sabotatori di un’operazione – l’astensione in massa di Forza Italia, in protesta – con cui Silvio Berlusconi avrebbe voluto rimandare, per non dire annullare, l’elezione del colonnello di FdI, scrive Il Mattino. È l’una e mezzo di pomeriggio quando il tabellone del Senato certifica il fatto: La Russa è la terza carica dello Stato. Un brivido attraversa gli assistenti parlamentari forzisti assiepati in Transatlantico tra ghigna e occhiolini, «lo fanno saltare, per oggi non se ne fa niente». Un minuto dopo, dentro e fuori l’emiciclo scatta la caccia all’uomo. Nei corridoi, sulle chat whatsapp, una sola domanda: chi è stato? Chi ha regalato un clamoroso assist a Giorgia Meloni, nel giorno più duro?
I primi indiziati, va da sé, siedono tra i banchi dell’opposizione. Dopotutto, tranne Berlusconi ed Elisabetta Casellati – gesto formale, dicono – nella compagine di FI nessuno ha ritirato la scheda. E se il dubbio serpeggia subito in una direzione – il leader di IV Matteo Renzi, «solo lui può pensare una cosa del genere», il refrain del palazzo – presto la caccia allarga gli orizzonti. Così il Senato si trasforma in una gigantesca stanza del Var, con gli onorevoli a riguardarsi – divertiti e un po’ confusi – la moviola del pellegrinaggio al catafalco. Chi sa fare i conti abbozza una prima indagine. La Russa ha ricevuto 116 voti, uno in più della maggioranza di centrodestra. Dei diciotto forzisti, in sedici sono rimasti fermi al banco, il che porta il conto della coalizione a 99. Uno solo dei franchi tiratori – o meglio, soccorritori – esce allo scoperto: Mario Borghese del Maie.
Tutti guardano a Italia Viva e Azione: noi non c’entriamo nulla
In pochi sospettano i tre senatori a vita: Carlo Rubbia, Elena Cattaneo, Mario Monti. Restano in campo tre liste: Azione-Iv, Pd e M5S. Ma tra gli ex alleati è un dedalo di accuse incrociate. Mario Turco, vice e plenipotenziario di Giuseppe Conte, assicura: «Noi non c’entriamo, abbiamo fatto un controllo interno, nome per nome». Dalla buvette, Ettore Licheri scuote la testa, cupo. «Noi siamo quanto di più lontano da La Russa. Si vada a cercare i suoi elettori tra chi la pensa come lui su nucleare, carbone, ambiente». Frecciatina dritta dritta al Terzo polo, dove però Renzi e Calenda negano a spron battuto. Sarà stato il Pd? «Quale dei tanti?», scherza una prima fila al Nazareno. Tra i primi osservati c’è la pattuglia di Base riformista, gli ex renziani, che mandano avanti un colonnello per frenare le insinuazioni, «noi c’entriamo zero, sono sicuramente i Cinque Stelle». C’è chi, è il caso di Renzi, sembra indicare una pista che porta al leader di Aria dem Dario Franceschini.
Altro sospetto, altra smentita, netta: «Non devo giustificarmi, la mia storia politica parla da sola». Meglio tornare al Var. Da cui, notano addetti ai lavori, sembra emergere un indizio: cronometro alla mano, c’è chi non si è limitato alla scheda bianca. Tra i nomi che circolano, Rossomando, Astorre, Delrio (Pd), Aloisio, Croatti, Floridia, Lorefice, Pirro, Sironi (M5S), Sbrollini (Azione-Iv). Di prove non ce ne sono. C’è chi consiglia di attendere l’assegnazione delle vicepresidenze e delle poltrone nelle commissioni di garanzia, dal Copasir alla Vigilanza Rai: qualcuno, è il sospetto, otterrà più di altri. Nel centrodestra, la caccia ai sedici non è meno febbrile. Ma anche qui regna la confusione. «Renzi ha provato a dimostrare che Forza Italia non è decisiva per il governo», mormora il leghista Stefano Candiani passeggiando in Transatlantico. Sulla sostanza concorda Berlusconi. In aula, c’è chi ha assistito a una sfuriata del Cavaliere a un drappello dei suoi, pallidi: «Grazie alla vostra strategia, avete reso Forza Italia ininfluente». Nel nugolo di ipotesi che fluttuano a Palazzo Madama, ce n’è però un’altra che merita una menzione. Non sarà che la regia del salvataggio in aula è in casa FdI? Tra i meloniani bocche cucite. «Non ne so nulla e non dico una parola», smentisce, col sorriso, Adolfo Urso. Di certo non manca, tra i big del partito, chi vede nello schiaffo a FI una «lezione» all’alleato ribelle: «Se la sono proprio cercata»