La Boldrini sfiora il ridicolo: dovrebbe farsi chiamare «la» presidente del Consiglio. E poi: perché oltre ai Fratelli d’Italia non ci sono anche le Sorelle?
Il dibattito vola alto già da settimane. Tutto è cominciato con le grandi inchieste di Repubblica e di altri settimanali sul salone di parrucchiere – pardon hairstylist – dove Giorgia Meloni si rifà il long bob leggermente mosso e più corto sul davanti. Ma poi il confronto ha preso una piega (non di capelli) diversa. Ed è partita l’avvincente – e decisiva per le sorti di questo sciagurato Paese – diatriba sull’utilizzo del nome Giorgia senza cognome nei titoli di giornale. «Perché la chiamano Giorgiaaaaa?», urlavano sui social le paladine della lotta al patriarcato. Dimenticando due particolari, anzi tre: 1) l’autobiografia Io sono Giorgia (mica Io sono Giorgia Meloni); 2) perché Mario (anzi superMario) sì e Giorgia no? 3) Giorgia Meloni (quindici caratteri spazi inclusi) è più lungo di Giorgia (sette caratteri) è un fatto da non sottovalutare quando si fa un titolo. Tagliando la testa al toro c’è chi ha preferito quindi scrivere la Meloni. Tutto a posto? Macchè.
È scoppiato un altro inferno. «Orroreeeeee, non si usa il “laaaaa”! Chiamatela solo Meloniiiii». Con grande sconforto di toscani e lombardi che hanno sempre usato l’articolo prima del cognome e ora devono contare fino a dieci per evitare gaffe. Ma c’è anche chi ha cinguettato «non chiamatela per nome perché così la rendete simpatica». E mentre le talebane della schwa, il team dei competenti e dei buoni, erano ancora confusi su quale linea tenere nell’ennesima polemica, ecco però che la Meloni (sì, chi scrive è di Firenze quindi usa il «la») butta lì un’altra bomba e sceglie di usare l’articolo maschile nelle sue comunicazioni ufficiali. Dunque «il presidente del Consiglio Giorgia Meloni», e non «la presidente del Consiglio Giorgia Meloni». Una questione di coerenza visto che già da numero uno di FdI, nei comunicati si definiva «il presidente».
L'”orrore” del cambio dell’articolo ha spiazzato tutti: dibattito e polemica sterile
Pure l’Accademia della Crusca ha fatto notare più volte che entrambe le forme sono corrette. «Nessun linguista potrebbe affermare che una delle due è sbagliata o impropria», ha ricordato il presidente della Crusca, Claudio Marazzini. Ma alla Crusca non avevano fatto i conti con la vera pasdaran della «lingua è mia e me la gestisco io», la deputata del Pd, Laura Boldrini. «La prima donna premier si fa chiamare al maschile. Cosa le impedisce di rivendicare anche nella lingua il suo primato? La Treccani ci dice che tutti i ruoli vanno declinati. O forse affermare il femminile è chiedere troppo alla leader di Fratelli d’Italia che già nel nome dimentica le Sorelle?», ha scritto sui social la (sì, la) Boldrini. Quando pensavamo che il fondo fosse stato toccato, qualcuno ha cominciato a scavare. Nel salottino di Instagram, tra una skin care e un adv di influmarketing (ovvero una marchetta), è spuntato un doppio salto carpiato. Quello della modella Bianca Balti che crede «nel potere della condivisione» perché «le mie esperienze negative possono diventare un’arma per le altre donne» e che ieri ha condiviso il pensiero della sedicente «media expert» Imen Jane, passata alla storia per la laurea mai presa ma della quale si è fregiata definendosi pure economista, e per le gaffe fatte con un’altra amica influencer durante un week end a Palermo pagato peraltro da uno sponsor.
Il pensiero condiviso del dinamico duo Jane-Balti? «Una donna di destra che supporta il sistema patriarcale è il token più pericoloso per fingere inclusione». Può bastare il rischio del «token» ovvero del simbolo, (traduciamo per chi non è come la Balti che è di Lodi ma per farsi capire dalla Jane preferisce l’inglese)? No. Non basta. Facciamo, siamo sadici, qualche altra segnalazione. La prima è un altro profondo dibattito sul fatto che la Meloni domenica al passaggio della campanella era vestita «da uomo» con un imperdibile tweet di tale Sciltian Gastaldi, professore di Storia e Filosofia: ai suoi studenti spiega che la Meloni si è messa «giacca e pantaloni con scarpe mocassino senza tacco» perché «quando una donna vuole apparire professionale e affidabile si deve vestire ancora da uomo». (Nota di chi scrive: gentile prof Gastaldi mi sono messa la gonna solo due volte in 49 anni, se si escludono quelle in cui minorenne sono stata costretta da mia madre, e non perché mi devo mascherare da uomo ma perché in gonna sto proprio male e con i tacchi riesco a fare pochi metri poi mi ribalto). Chiudiamo con il pensiero di Myrta Merlino, conduttrice de L’aria che Tira su La7, in merito alla posizione contro l’aborto di Eugenia Roccella, neoministro della Famiglia, Natalità e Pari opportunità del governo Meloni: «Mia madre si rivolta in tomba, è stata una generazione di donne che ha tanto combattuto per quello». La (sì, la) Merlino esprimeva tutto il suo sdegno per la frase «l’aborto non è un diritto» riportata nel titolo dell’intervista alla Roccella pubblicata ieri da La Stampa. Intervista di cui forse la Merlino ha letto, appunto, solo il titolo.