Il 28 ottobre del 1979 Vincenzo Paparelli fu ucciso da un razzo partito dalla Curva Sud. Il figlio Gabriele: “Ancora oggi mi chiedo il perchè”
L’omicidio più efferato che si sia mai visto all’interno di uno stadio. Un razzo lanciato dalla Curva Sud e che colpisce in pieno volto un tifoso seduto nella Curva opposta. Un episodio che ha sconvolto l’Italia e ha distrutto per sempre la vita della famiglia Paparelli. Il 28 ottobre del 1979 resterà per sempre una data da dimenticare per i tifosi della Lazio, ma per ogni cittadino italiano dotato di buon senso e civiltà. La data che ricorda uno dei momenti più bui in cui è caduta la società civile.
Era la settima giornata del campionato 79-80. Il calendario prevedeva il derby della capitale. La stracittadina arriva nel mezzo delle proteste di piazza e degli anni più complicati della nostra nazione. Anni pesanti, dove il calcio restava una sorta di isola felice. Ma quel giorno anche sul pallone scese una nube densa di amarezza e di grande tristezza. La sorte si abbatte contro Vincenzo Paparelli, tifoso biancoceleste di 33 anni che, originariamente, non sarebbe neanche dovuto essere allo stadio Olimpico. A prendere i biglietti per il derby era stato il fratello. “All’inizio papà aveva deciso di andare a trovare i nonni a Valmontone – ricorda il figlio Gabriele, otto anni all’epoca dei fatti – era una brutta giornata, piovosa. Poi si affacciò un timido sole e decise di andare allo stadio. Ne parlò con mamma e decisero insieme. Anche lei lo accompagnò. Io piantai un capriccio, piangevo. Volevo andare con loro all’Olimpico. Ma fu irremovibile. Aveva paura a portare un bambino al derby. Temeva che potessero esserci degli scontri”.
Quello che accadde poi, è tristemente noto. Vincenzo e la moglie Vanda vanno allo stadio Olimpico, mentre i due figli Gabriele e Marco restano a casa. L’atmosfera è strana. Particolare. Dalla curva sud partono due razzi. Il primo percorre una traiettoria di oltre 250 metri e viene lanciato oltre gli spalti. Il secondo finisce in curva nord.
Vincenzo Paparelli era seduto al fianco della moglie e mangiava un panino. Chi era al suo fianco ha visto quella scia illuminare lo stadio e terminare nel cuore della curva nord. “Di quella maledetta domenica ricordo tutto – continua il figlio Gabriele a Notizie.com – anche le venature degli scalini che ho sceso di corsa, quando all’improvviso mi hanno detto di andare fuori di casa e mi portarono al luna park. Ero piccolino, ma ho capito subito che c’era qualcosa che non andava. Quelle attenzioni così improvvise verso di me, la voglia di assecondare tutte le mie richieste, l’avermi portato da mia nonna, mentre mio fratello andava da zia. Poi i giornalisti fuori casa quando la sera tornai”.
Per Gabriele e la sua famiglia inizia un calvario. “Eravamo una famiglia come quella del mulino bianco. Stabile, con mio padre che ne era la guida. E siamo piombati in una dimensione nuova. La Lazio con la sua società ci è stata vicina, così come tanti altri club. Ricordo una bellissima lettera scritta con il cuore da Dino Viola, ma soprattutto tanti pensieri da parte della gente comune, scossa da ciò che era successo. Non dimenticherò mai le lettere che arrivavano indirizzate a me e mio fratello con i soldi che qualcuno pensò di darci avendo perso nostro padre”.
La solidarietà del mondo del calcio, ma anche l’idiozia di chi ha preferito dileggiare la memoria di un uomo sottratto alla vita troppo presto e in un modo barbaro. “Per anni avevo sempre con me una bomboletta spray con la quale cancellavo le scritte che qualche imbecille lasciava sotto la nostra casa. Avevo paura che mamma le potesse leggere. Per anni mi sono chiesto il perchè di certi cori, poi ho capito che erano solo un modo stupido di prendere in giro la Lazio”.