Una festa divisiva e ancora ideologica

Il 25 aprile dovrebbe essere una festa per tutti gli italiani ma da diversi anni viene strumentalizzata per fini politici

Meglio essere chiari da subito: il 25 aprile, così come è stato presentato e manipolato finora non potrà mai diventare la festa di tutti gli italiani. Infatti, quella data continua a preservare – come sta accadendo in queste ore con la strumentalizzazione di un’intervista a Ignazio La Russa- un carattere profondamente divisivo al punto da derivare ad attribuire al presidente del Senato frasi che non sono mai state pronunciate. Stupirsi sarebbe un esercizio inutile. È molto meglio cercare di capire. Illuminanti, a tal proposito, sono le osservazioni dello storico Roberto Chiarini quando scrive- in “25 aprile, la competizione politica sulla memoria“- che in Italia «come non c’è al presente un solo impegno dell’agenda politica su cui si possa possa un comportamento consensuale, registrare così non vi è alle spalle un solo passaggio storico di rilievo su cui si è consolidata una valutazione.

L'evento
Il presidente Mattarella durante la celebrazione del 25 aprile (Ansa)

Memorie separate su tutto: su Risorgimento e fascismo, su epoca liberale ed età repubblicana, sulle guerre combattute e sulla politica estera. Figuriamoci sulla Seconda guerra mondiale che di tutta la nostra storia è stato il passaggio forse più carico di lacerazioni e propositi radicalmente alternativi». Alla realizzazione di un tale fossato, a partire dal 1945, contribuisce non poco la riduzione, da parte della sinistra, del fascismo da fatto storico definitivo concluso ad entità ideologica costantemente presente come minaccia nel panorama politico italiano. Di qui l’invito ad una continua “vigilanza democratica” per evitare il ritorno della dittatura.

Più che una festa di tutti sembra una narrazione del vecchio Pci

Il ricordo
Un gruppo di manifestanti che celebrano il 25 aprile (Ansa)

Si tratta di una narrazione funzionale alla messa in atto dal Pci fin dai primi anni del Dopoguerra. Quel partito non potendo trovare sul terreno della democrazia liberale la sua legittimazione per ragioni sia di dottrina che per collocazione internazionale- utilizza l’antifascismo come strumento ideologico per affermare la sua credibilità democratica. Infatti, il segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti– aprendo a Bari nel 1952 un convegno su Antonio Gramsci – ribadisce che «in una società capitalistica la tentazione di una svolta reazionaria è sempre dietro l’angolo, il fascismo nella nostra vita nazionale è qualcosa di sempre presente come pericolo e minaccia che incombe sopra di noi».

Il corollario di una tesi siffatta fu che antifascismo e democrazia divennero per mano della sinistra sinonimi, mentre l’anticomunismo fu presentato come l’anticamera del fascismo. Il danno compiuto con una così palese realtà della realtà è stato tale che il 25 aprile non è mai riuscito a diventare patrimonio comune e il simbolo della riconquistata libertà. Nel 1975, a ridosso della ricorrenza, Vittorio Foa scriveva sul Manifesto che «attraverso la Democrazia cristiana come attraverso il Partito liberale di Benedetto Croce, la borghesia si fece antifascista per assicurare la continuità del vecchio Stato. Per questo non è decente celebrare con loro il trentennale della Liberazione». Alcuni anni o sono lo storico Piero Melograni propongono di chiudere con il passato, trasformando il 25 aprile in una grande «festa nazionale della democrazia»Non se ne fece nulla. Si tratta ancora oggi di una operazione difficile da compiere in un Paese in cui “il passato continua a non volere passare

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