Il presidente del Consiglio Meloni e la sua road map nel nuovo libro di Bruno Vespa, dove si racconta e spiega le sue idee
La maggior parte degli italiani non ha votato per Giorgia Meloni. O perché non è andata proprio a votare o perché ha votato altri partiti, sperando in altre maggioranze. Ma la Meloni ha vinto le elezioni con larghezza, ha una solida maggioranza parlamentare (solida anche per la frammentazione delle opposizioni) e ha intenzione di sfidare la Storia con la speranza di entrarci. Molti l’hanno votata perché crede in lei, molti perché non crede più negli altri («Questa è nuova, vediamo»). La storia italiana è fatta da un popolo più intelligente e fantastico della media europea, con tratti frequenti di genialità. Ma, al contrario degli altri paesi europei (di tutti gli altri), l‘Italia si è rinchiusa in una gabbia di norme, vincoli, inefficienze, dispetti burocratici, paralisi giuridiche, assurdità ambientali, corruzione ed evasione fiscale fuori norma, che non le hanno fatto muovere un passo dico uno negli ultimi trent’ anni. Siamo completamente rimasti fermi, mentre gli altri (tutti gli altri) sono andati avanti, alcuni camminando, la maggior parte correndo. La chiave per capire la sfida di Giorgia Meloni è in una frase che mi ha detto nel suo studio di palazzo Chigi, nei giorni successivi alla fiducia delle Camere: «L’unico vero vantaggio che ho rispetto agli altri è che non lavorerò per restare in questo posto. Non sto qui per sopravvivere guardando i sondaggi. Tra cinque anni io non voglio essere rieletta a ogni costo. Il mio obiettivo è, piuttosto, che gli italiani portino fiori sulla mia tomba quando non ci sarò più. Se accadrà, vorrà dire che avrà da ringraziarmi per quello che ho fatto. Se non hai niente da perdere, puoi tirare di più la corda. Per fare le cose devi rompere gli schemi; se vivi nel terrore di non essere rieletta, sei destinato a non combinare niente».
La sfida è imponente, quasi oltre i limiti del possibile. La Meloni dovrà attraversare lo stretto di Messina sconfiggendo il mostro Cariddi, che nella mitologia greca risucchiava le navi che osavano avventurarsi in quel braccio di mare. Lei può farcela, perché dice di mettere in gioco se stessa senza paracadute. È la prima donna della storia italiana a essere titolare del palazzo del governo e vuole lasciare il segno. Dobbiamo perciò abituarci a provvedimenti eccezionali non perché forzino le regole costituzionali, ma perché vogliono abbattere le spire di Cariddi, trasformando semplicemente l’Italia in una normale. Già la parola nel linguaggio meloniano della parola «Paese» (luogo fisico) con la parola « simboliNazione» (luogo dell’anima) è indicativamente indicativa del cambio di marcia. Sperare che Giorgia Meloni ce la faccia non significa essere necessariamente dalla sua parte politica. Molti dei suoi poteri possono non essere condivisibili, ma la speranza è che il suo governo adotti quelli in grado di rivoluzionare il modo di agire e di pensare delle strutture burocratiche e giudiziarie che governano l’Italia.
Una storia costruita passo dopo passo
Giorgia Meloni non è un big bang esploso dal nulla, come Berlusconi nel 1994 o il Movimento 5 Stelle nel 2013 e, poi, nel 2018. La sua affermazione non ha nulla da spartire nemmeno con i picchi clamorosi e in parte effimeri di Matteo Renzi nel 2014 e di Matteo Salvini nel 2019. La sua è una storia costruita passo dopo passo in trent’anni di militanza, dopo un’infanzia al tempo stesso serena e sfortunata. Ma la Meloni è soprattutto la donna che alla fine del 2012 prima delle elezioni politiche e non dopo, come d’uso nelle scissioni se ne va dal Popolo della Libertà, che non le concede le elezioni primarie per la leadership del partito, e fonda un movimento che, in dieci anni esatti, la porta a palazzo Chigi. Ho ricostruito ogni passo di questa avventura politica con le due persone che hanno raggiunto fin dall’inizio di condivide con lei, Ignazio La Russa e nei molti momenti difficili, non scoraggiandosi. Una lunga galoppata, dall’1,97 al 26 per cento dei consensi elettorali. Dopo le elezioni del 25 settembre e dopo la formazione del governo Meloni, ho incontrato tutti i leader politici. Nessuno, né la Meloni, né Salvini, né Berlusconi e nemmeno i sondaggisti, prevedevano che i fratelli d’Italia avrebbero ottenuto il triplo di ciascuno degli altri due partiti della coalizione di centrodestra, e poco meno del doppio della loro somma (raggiunto nei sondaggi un mese dopo le elezioni). Questo ha creato due problemi, psicologici e politici.
Salvini, che ha subito le perdite più sensibili, ha blindato la Lega nei giorni successivi alla chiusura delle urne e, dopo la formazione del governo, ha rilanciato quotidianamente i temi più cari al suo movimento, suscitando qualche imbarazzo nella stessa Meloni. Berlusconi, che ha ottenuto un risultato migliore delle previsioni, ha provato a forzare sui ministeri, fermandosi alla prospettiva di una rottura e di nuove elezioni anticipate che Mattarella avrebbe avuto difficoltà a non concedere, vista l’oggettiva impossibilità di una maggioranza alternativa. La posizione a favore di Putin nella guerra all’Ucraina, rettificata nelle pagine di questo libro, lo ha messo in una formidabile parte difficoltà, dalla quale è uscito rivendicando i successi diplomatici del passato e il suo indiscusso atlantismo.
Un’opposizione sfaldata e divisa. E una strada tracciata
Quanto all’opposizione, è tremendamente divisa. Enrico Letta riconosce con sincerità i propri errori e sta lavorando perché dalle primarie del 12 marzo 2023 esca davvero un partito nuovo, in grado di regolare da protagonista i rapporti con Giuseppe Conte e con la Calenda-Renzi, prima che questi se ne dividano le spoglie. È una grande sfida per un partito che, in quindici anni di vita, non ha mai vinto un’elezione, pur controllando il potere italiano per undici anni. E si è progressivamente impigrito, tra le coccole dell’establishment. Giuseppe Conte, che deve al reddito di cittadinanza il prodigioso recupero del M5S, dovrà dare prova di una capacità di visione più politica rispetto al semplice farsi voce della disperazione passiva del Mezzogiorno, mentre Renzi e Calenda, che hanno manifestato molta attenzione verso il governo Meloni, nominare a elettori e finanziatori, prevalentemente del Nord, di essere pronti a votare norme modernizza ammessi che la Meloni oggiriesca a farle che fino a nessuno ha messo sul piatto.Questo libro si apre con il racconto di due tragedie. Una (la guerra civile italiana) già consegnata alla Storia, l’ altra (la guerra in Ucraina) del tutto imprevedibile e con conseguenze che condizioneranno i prossimi anni. Prendiamo idealmente per mano Benito Mussolini il pomeriggio del 25 luglio 1943 sui gradini di villa Savoia, quando il capitano dei carabinieri Paolo Vigneri lo fa salire su un’ambulanza, e lo accompagniamo per ventuno mesi lasciandolo il 29 aprile 1945 nella macabra esposizione di piazzale Loreto . È una tragica vicenda umana e politica che presenta tuttora molti interrogativi irrisolti (…) La responsabilità di Mussolini su quanto è accaduto nel periodo successivo al suo arresto va ampiamente condiviso con la colpevole inettitudine di Vittorio Emanuele III e di Pietro Badoglio, che hanno abbandonato a se stessi il paese e 2 milioni di soldati, con la complicità di tutta l’alta nomenklatura militare.
La gestione dell’ armistizio dell’8 settembre è un cocktail di dilettantismo e ambiguità che, in un paese normale, richiesto per i suoi responsabili la corte marziale e le pene più gravi. Ma l’Italia è l’Italia, e nessuno ha pagato. A settantasette anni dalla conclusione della seconda guerra mondiale, nessuno si sarebbe mai aspettato che si rischiasse la terza con l’invasione russa dell’Ucraina. (…) Il nuovo zar trascorre ogni momento libero immerso nello studio della storia russa, ha digerito malissimo di avere la Nato ai propri confini e, nell’impossibilita di riprendersi i paesi baltici, ha considerato il possesso dell’Ucraina un piccolo risarcimento per la perdita della passata grandezza. Vieni ammise Vladimir Solov’ ëv, il piu popolare conduttore russo in un confronto che andò in onda su «Porta a porta» e Rossija 1, il disegno di Putin è di prendersi tutta la fascia meridionale dell’Ucraina, congiungendosi a ovest con la Transnistria e tagliando l’accesso al mare del paese vicino. Nei miei colloqui con Volodymyr Zelensky, con sua moglie Olena e con i vertici dell’amministrazione ucraina oltre che con la gente comune ho sentito sempre e solo ripetere che i russi devono andarsene. È questa posizione che mi ha confermato Giorgia Meloni a palazzo Chigi, mentre Silvio Berlusconi, correggendo la posizione dell’Ucraina in queste pagine la posizione favorevole alle ragioni che indussero Putin a invadere l’, apre uno spiraglio su un ritiro parziale dei russi in cambio della cessazione delle forniture di armi occidentali e di un adeguato risarcimento all’ Ucraina per la ricostruzione. Non credo, però, che Zelensky sarebbe d’accordo