Passata la Finanziaria, il presidente del Consiglio è chiamata a nuove sfide e non tutte saranno semplici
Nella lista di fronti aperti che attende alla prova Meloni, manca solo quello con l’opposizione. Gli scogli della Finanziaria sono ormai alle spalle: d’ora in avanti la premier è attesa a sfide che saggeranno le sue capacità di governo. In Italia come in Europa, il numero di dossier da risolvere rivelerà se saprà tener fede all’idea di «cambiamento» con la quale si è imposta nelle urne. Il rodaggio iniziale le è servito: ha fatto tesoro degli errori commessi nei tempi ristrettissimi concessi per il varo della manovra e ha compreso che c’è un «difetto di coordinamento» tra i ministri, che le strutture dei dicasteri «sopravanzano in certi casi le scelte politiche», e che pertanto serve «registrare il corretto funzionamento dello Stato» per raggiungere gli obiettivi di programma.
La polemica sul tema non la scompone, anzi il suo elettorato — raccontano i sondaggi — attendeva questa mossa. Piuttosto, nel momento in cui ha deciso di fronteggiare un pezzo di quelli che Tatarella chiamava i «poteri forti», ha messo nel conto i rischi che la decisione comporta. Cosa che ha potuto constatare nei giorni della legge di Bilancio, quando si è interrogata con Giorgetti sulle «anomalie» di alcuni uffici. Ma cambiare non basterebbe se poi i sostituti non fossero all’altezza, perciò pone (e chiede) attenzione sulle future scelte. «Non si può entrare in una cristalleria con la clava», dice infatti un ministro: l’esempio lo ha offerto il Guardasigilli Nordio, che al suo dicastero ha cambiato quasi tutta la struttura senza contraccolpi.
Tanti tenteranno di indebolire Giorgia, lei dovrà sapersi muovere
Il tema dei rapporti nella coalizione è delicato al punto che sulle riforme palazzo Chigi scarta la soluzione di una Bicamerale, per evitare che diventi — racconta uno dei maggiori esponenti del governo — una sorta di Vietnam politico, il luogo delle alleanze trasversali che mirerebbe a «indebolire Giorgia». In ogni caso la revisione della Carta si impantanerebbe in Parlamento senza un accordo di ferro nella maggioranza. «E già sulle leggi ordinarie al Senato ci si muove sul filo dei numeri», avvisa minaccioso uno dei rappresentanti dell’alleanza. E allora Meloni dovrà decidere come muoversi: se offrire un compromesso agli altri leader o calare l’asso pigliatutto con il progetto del Partito Conservatore. Sono bastati un paio di colloqui con il presidente del Ppe Weber, nella prospettiva di un accordo dopo le Europee del 2024, per accendere gli animi nel centrodestra.
Ed è proprio l’Europa il fronte su cui la premier si giocherà gran parte della scommessa sul «cambiamento». Lì dovrà dar fondo alle migliori doti diplomatiche. Perché fra un anno le elezioni potrebbero anche aprirle le porte per un ingresso a pieno titolo nella nuova maggioranza a Strasburgo. In quel caso avrebbe voce in capitolo e influenza a Bruxelles per ottenere dei risultati sul tema dell’immigrazione o per ridurre quella che nel suo partito definiscono «l’eccessiva invasività della burocrazia europea nei processi decisionali degli Stati nazionali». Ma oggi deve fare i conti proprio con gli avversari che intende scalzare e con i quali deve trattare su ogni dossier, a partire dalle modifiche sulle regole del Pnrr. E non sono previsti sconti.