Parla il procuratore capo di Roma che al quotidiano spiega il suo pensiero sull’acceso dibattito sulle intercettazioni
Il Procuratore di Roma Francesco Lo Voi è un palermitano mite di 64 anni. E dei palermitani ha il gusto dell’argomentare intelligente, ironico. È arrivato a Roma nel gennaio del 2022, dopo aver guidato per anni la Procura di Palermo e coordinato la caccia a Matteo Messina Denaro. La polemica scatenata dal ministro di Giustizia Nordio su intercettazioni telefoniche, cultura del pubblico ministero, separazione delle carriere, lo trova in grande forma dialettica. «La discussione sull’urgenza di modificare la disciplina delle intercettazioni e sul ruolo del pubblico ministero mi sembra lunare». Lunare? «A parte il fatto che quando si parla di intercettazioni telefoniche o comunque di captazioni ambientali o informatiche non dovremmo mai dimenticare che c’è un pubblico ministero che le chiede e un giudice terzo che le dispone, ha presente quelle vecchie immagini in bianco e nero, un po’ sfocate, scattate da macchine fotografiche un po’ segnate dal tempo? Ecco, la rappresentazione della giustizia penale e della figura del pubblico ministero di cui ho sentito parlare in questi giorni da alcuni settori politici, mi ricorda una di quelle foto. Perché quel mondo semplicemente non esiste più. Soprattutto, da due anni, esiste una legge, cui si è arrivati dopo lunga e faticosa discussione, che impone l’inserimento nel fascicolo del processo soltanto di quelle conversazioni intercettate ritenute dal pubblico ministero e da un giudice terzo, dunque non dalla polizia giudiziaria, penalmente rilevanti ai fini della prova. Oggi, tutte le conversazioni intercettate non rilevanti non vengono trascritte e rimangono custodite nel cosiddetto “armadio giudiziario” cui hanno accesso, su richiesta, solo gli avvocati della difesa. Che, per giunta, possono ascoltarle, ma non farne copia».
Quindi dove è il problema? «Me lo dica lei. Io sono tra quelli che ritiene che non debbano essere rese note in nessuna sede e per nessun motivo conversazioni captate per motivi di indagine e potenzialmente lesive della privacy e della dignità di indagati o, a maggior ragione, di persone estranee all’indagine. E che, se questo accade, gli abusi vadano sanzionati. Ma, appunto, sono tra quelli che, da due anni, applica alla lettera una legge che è servita esattamente a metterci nelle condizioni di rendere un abuso di questo genere francamente molto difficile. A meno di non immaginare accessi illeciti a registrazioni destinate a non trovare ingresso neppure nel processo».
Forse una parte della classe politica e dirigente del Paese vede nelle intercettazioni una minaccia intollerabile perché potenzialmente capace di svelare il lato oscuro dell’azione politica, dell’amministrare pubblico, dell’interesse economico. A maggior ragione nel momento in cui finisce la latitanza di un uomo come Messina Denaro ritenuto depositario di segreti e collusioni indicibili con pezzi delle istituzioni. «Detto che in Sicilia, negli anni scorsi, è stato condannato per reati con aggravante mafiosa un ex presidente della Regione come Cuffaro, se il problema fosse Messina Denaro, direi che ormai, finita la latitanza, il problema è chiuso».
«Perché a questo punto scopriremo se e cosa c’è ancora da scoprire sulle sue collusioni con pezzi delle istituzioni, che si faccia o meno un nuovo intervento sulle intercettazioni – ha aggiunto Lo Voi a Repubblica – . Se invece il discorso, come mi sembra, è rivolto al futuro, dobbiamo metterci d’accordo. Perché la questione è molto semplice. Siamo un Paese con un altissimo tasso di illegalità in cui le intercettazioni sono fondamentali per venire a capo non solo di reati di mafia e terrorismo, ma anche di quei reati “spia” che della mafia rappresentano l’altra faccia, o una delle facce, e che sono quelli contro la pubblica amministrazione e quelli fiscali. Decidiamo, dunque. Se non vogliamo più sentirne parlare, dobbiamo avere il coraggio non di modificare le intercettazioni, ma di cancellare quei reati. E dire che non ne vogliamo più sapere perché ci disturbano»