Libero, costretta a velo e nozze: 16enne dice no

Picchiata se non pregava e promessa ad un cugino: si sfoga con l’insegnante e i giudici la mandano in una comunità

Picchiata se non pregava, velo a oltranza e matrimonio deciso da anni. Lei però si ribella. La tragedia (ancora più grande) è che, oramai, episodi del genere rischiano di non fare nemmeno più notizia. Di non finirci proprio, sui giornali. Ferrara, Modena, Firenze, Ostia: tutti fatti analoghi avvenuti negli ultimi anni. E poi Vicenza, ieri. Il caso più “fresco”, più recente. Forse anche uno di quelli che ci indignano maggiormente perché a farne le spese è una ragazzina di appena sedici anni: una di quelle che dovrebbero pensare alla scuola, alle prime cotte adolescenziali, a uscire con le amiche per parlottare dei fatti loro. Invece lei cresce in una famiglia senegalese, una famiglia mussulmana che non gliene fa passare una.

La scelta
Il velo portato da una ragazza che sta per sposarsi (Ansa Notizie.com)

Deve indossare il velo, punto e basta. Deve partecipare ai momenti di preghiera, punto e basta. Deve obbedire: deve (anzi: dovrà) sposare un cugino, che ha il doppio dei suoi anni, cioè trenta tondi tondi, che nemmeno vive in Italia, abita ancora in Senegal, e proprio per questo lei è costretta a telefonargli tutti i santissimi giorni. A farsi sentire, a mantenere i contatti in vista di quel destino che l’aspetta. Punto e basta, perché è così che deve andare. Invece la 16enne, come riporta il quotidiano locale. Il giornale di Vicenza, a un certo punto ha un crollo e si sfoga con un’insegnante del doposcuola. Le racconta tutto, le chiede aiuto. Le dice, per esempio, che quando si rifiuta di indossare il velo islamico i suoi la chiudono in camera. Che fanno lo stesso quando lei disertale occasioni religiose familiari.

Lei racconta tutto all’insegnante che ne parla ai giornali: il putiferio

Il matrimonio islamico
Ragazze con il velo durante una preghiera (Ansa Notizie.com)

Loro, i genitori, a quelle accuse che diventano una denuncia formale nell’arco di un nano secondo (e poi finiscono pure per giustificare una misura cautelare, ma ci arriviamo) si oppongono. Non vogliono sentir parlare di maltrattamenti: sostengono che si tratti, semmai, di una ripicca della figlia che rimprovera una scarsa disponibilità economica la quale non le permette di condurre una vita uguale a quella delle sue coetanee italiane. È un capriccio, insomma. Epperò la magistratura veneta non sembra tanto incline a dar retta a questa giustificazione. Non lo sembra perché spedisce la 16enne in una comunità protetta e impedisce (tramite una decisione protocollata in tribunale che emette, su richiesta del pm che segue l’indagine, una misura cautelare specifica) ai suoi genitori di contattarla in qualsivoglia modo. Non le possono più telefonare, non la possono vedere, non possono andare a trovarla né al centro che adesso è diventato casa sua né nei luoghi che frequenta abitualmente.

La scuola o la palestra nella quale si allena. La famiglia vive nell’area di Thiene, in provincia di Vicenza. Le vessazioni (pare ci siano state anche occasioni in cui si sono alzate le mani) sono proseguite per anni. Non si è trattato di un momento. Fino a quello sfogo con la prof che ha alzato il telefono per chiamare le forze dell’ordine. Ora i due genitori senegalesi sono stati denunciati: e la giustizia farà il suo corso e la verità verrà a galla e, indipendente da come andrà a finire, resta un fatto. Che di storie simili ne leggiamo troppe. Che di questo passo finiremo per non prestarci manco più attenzione. Tra pochi giorni inizia il processo per la morte di Saman Abbas: una vicenda molto più complessa, molto più violenta e molto più drammatica. Però che inizia dallo stesso punto di partenza. Ecco, basta.

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