Negli Stati Uniti quella di lobbying è considerata un’attività professionale legale e disciplinata, a differenza del nostro Paese e di molti altri in Europa e nel mondo occidentale. Il Qatargate ha messo in luce questa realtà in modo particolare.
Una realtà che peraltro riporta a molto indietro negli anni, fino alle seconda metà dell’Ottocento e al primo lobbista della storia americana, vale a dire il presidente degli Stati Uniti Ulysses Grant, tra il 1869 e il 1877.
Anche se il termine “lobbying” rimanda a un’etimologia latina, di certo si tratta di un’attività incredibilmente americana. Che viene svolta nei corridoi dei palazzi del potere, ma a differenza di molti altri luoghi lo si fa alla luce del sole. Tanto che ogni centesimo che privati o aziende donano alla politica va necessariamente rendicontato e reso pubblico, in un report che esce ogni tre mesi. Mentre sono severamente vietati i regali.
Le prime occasioni in cui comparve l’appellativo di “lobby-agents”
Intorno al 1880 negli Usa si fa strada l’appellativo di “lobby-agents” con cui si chiamavano coloro che facevano “pressione” sui membri del Congresso di Albany. Anche se c’è chi sostiene che fu il presidente degli Stati Uniti Ulysses Grant ad incarnare il ruolo di primo lobbista della storia, quando riceveva nella sua stanza al Willard Hotel, poco distante dalla Casa Bianca, numerose personalità professionali che gli domandavano interventi “speciali” e particolari sui determinati settori di loro interessi.
Oggi i “lobbisti” sono diventati un vero e proprio caposaldo della democrazia americana, seppure si tratti di un termine spesso utilizzato in maniera dispregiativa. Già, questo perché fare lobbying significa fare pressione sulla politica per favorire i propri interessi, di cui ci si fa portatori, legittimamente se si tratta di un’attività regolamentata, un po’ meno se tutto ciò avviene nell’oscurità dei corridoi del potere.
L’approvazione del Federal Regulation of Lobbying Act
Fu questa la ragione per cui nel 1946 il Congresso americano approvò il Federal Regulation of Lobbying Act per mettere nero su bianco, una volta per tutte, l’attività promossa dai portatori di interessi nei confronti delle istituzioni pubbliche.
Questa, infatti, affermava che “chiunque individualmente, o attraverso un loro agente o impiegato o altre persone di qualunque tipo, direttamente o indirettamente sollecita, raccoglie o riceve denaro o altre cose di valore da usare principalmente per aiutare l’approvazione o la bocciatura di qualsiasi legge da parte del Congresso”, era chiamato ad entrare in uno “specifico Albo”. Quello dei lobbisti.
Da quel momento, i lobbisti hanno avuto l’obbligo di dichiarare per chi lavoravano e di conseguenza stilare il resoconto delle proprie attività, che oggi vengono puntualmente raccolte nel Registro del Congresso. Nel 1995 la definizione di lobbista si è tuttavia cristalizzata in una maniera ancora più precisa, con il “Lobbying Disclosure Act” che definiva lobbista chiunque fosse “impiegato o stipendiato tramite compensi finanziari o non per servizi che includano più di un contatto lobbistico”.
Oggi, una recente analisi del Wall Street Journal ha affermato che, fino al 202, le prime aziende Usa per attività di lobbying, con una spesa che si aggira per ognuna tra i diciotto e venti milioni di dollari l’anno, sono state Facebook e Amazon. Mentre nel 2021 sono state superate dalle Camere di commercio americane, con 66,4 milioni di dollari, seguite a ruota dal settore immobiliare e da quello farmaceutico e manifatturiero, rispettivamente con 44 e 29 milioni di dollari.