Durante la promozione del suo nuovo film, Pierfrancesco Favino si è scagliato con particolare decisione su una tendenza del cinema italiano contemporaneo.
Quella di Pierfrancesco Favino è senza dubbio una delle figure più in vista dell’attuale panorama cinematografico nostrano e le sue dichiarazioni sono sempre seguite da una particolare attenzione da parte della stampa e degli spettatori italiani.
Questa volta Picchio (come viene chiamato Favino dagli amici più stretti), in occasione della presentazione del suo nuovo film L’ultima notte di Amore alla Berlinale, ha voluto muovere una critica piuttosto precisa nei confronti dell’approccio nazionale alle proprie icone in ambito cinematografico.
L’attore romano ha dichiarato: “Vedo sempre più spesso che i ruoli di personaggi italiani nelle grandi produzioni internazionali che vengono a girare da noi vanno ad attori non italiani; al contrario negli Stati Uniti a me non farebbero mai fare Kennedy. E a nessuno verrebbe mai in mente di chiedere a un attore americano di interpretare Yves Saint Laurent, perché i francesi hanno messo dei paletti precisi. Penso che un attore dovrebbe poter interpretare anche un elefante, ma, se la logica è questa, includete anche noi. Invece noi italiani facciamo eccezione. Quando lo fai notare ti rispondono che noi siamo una minoranza”.
Difficile smentire Favino, che individua con particolare puntualità un paradosso evidente dell’industria nazionale: basti pensare a tutte quelle icone italiane che sono state al centro di progetti internazionali, come nel recente Lamborghini (presentato tra l’altro al festival del cinema di Roma) o nel prossimo lungometraggio basato sulla storia di Enzo Ferrari, in cui sarà Adam Driver ad interpretare il celebre imprenditore modenese. Favino ha poi concluso: “Dobbiamo mettere dei paletti, anche rischiando di perdere qualcosa in termini di investimenti internazionali, di quelli che vengono da noi a girare per usufruire del tax credit. Dovrebbe interessarsi qualcuno a questa questione, magari anche a livello ministeriale. Ma attenzione, perché non è un problema politico, è un problema industriale. Un problema legato alla perdita di rispetto che sento e vedo per la nostra scuola e la nostra cultura cinematografica”.