Ecco nuove e allarmanti verità che stanno emergendo dall’inchiesta sul Covid. Le prese di posizione poche chiare di medici e politici
L’inchiesta sul Covid, che vede sotto l’occhio del ciclone politici e responsabili medici chiamati a prendere posizione nei primi giorni di diffusione della pandemia, sta facendo emergere errori di valutazione, verità nascoste e prese di posizione piuttosto discutibili. Ieri abbiamo mostrato le conversazioni tra il ministro della Sanità Roberto Speranza e Brusaferro, capo dell’ISS, nelle quali si evinceva come fosse proprio il politico a dettare la linea da seguire al medico, e non viceversa.
“Se vogliamo mantenere misure restrittive conviene non dare troppe aspettative positive”, dichiarava Speranza il 6 aprile del 2020, in pieno lockdown. “Ok Quindi niente modelli come quello che ti ho mandato”, rispondeva Brusaferro, lasciando intendere l’esistenza di documenti che avrebbero quindi potuto generare sensazioni di ottimismo nella popolazione. “E’ sufficiente?”, chiese Brusaferro, dopo la consueta conferenza stamoa delle ore 18 (dove venivano irradiati i bollettini tragici a tutta la Nazione). “Ottimo”, continua Speranza. “Glielo diciamo? Che prevediamo sempre la chiusura?”, chiese ancora il numero uno dell’ISS. “Si. Chiaramente”, confermò il Ministro. “Siamo stati tranchant!”, ultima battuta di Brusaferro, alla quale Speranza rispose con un: “Perfetto”.
Ma se ad aprile si evidenziò la voglia di “non dare troppe aspettative positive”, all’inizio della vicenda, le volontà furono completamente diverse. L’inchiesta vuole portare alla luce gli errori nella prima fase, quando si decise di non creare una zona rossa in Lombardia, regione in cui scoppiarono i primi focolai. Secondo Crisanti (il grande accusatore), questa mossa ha portato almeno a 4000 morti che si potevano evitare. Dalle carte in mano alla Procura e dagli interrogatori emergono situazioni chiare. Il 24 febbraio 2020, gli esperti chiamati a gestire l’emergenza raccomandavano la segretezza del “piano di organizzazione della risposta (…) in caso di epidemia”, che si avvaleva dello studio sugli scenari, definiti “devastanti”, completato da Stefano Merler, consulente epidemiologo della Fondazione Kessler. Questo piano (che restò segreto) prevedeva (come evidenziato da Antonio Pesenti, allora coordinatore delle terapie intensive dell’Unità di crisi della Lombardia e primario al Policlinico) tre scenari: il primo era “gestibile”, il secondo era “critico” e il terzo era “un disastro”.
Le verità nascoste…e sottovalutate
Perchè si raccomandava che quel piano restasse segreto?. “Massima cautela nella diffusione del documento, onde evitare che i numeri arrivino alla stampa”. Tre giorni dopo il caso di Paziente 1, che ha dato il via ufficiale alla pandemia che di lì a poco avrebbe travolto la Lombardia e l’Italia, il Comitato Tecnico Scientifico e il mondo della sanità e della politica erano preoccupati che non filtrassero notizie allarmanti. Oltre alla segretazione del piano di Merler, si invitava all’esecuzione dei tamponi solo per i “casi sintomatici”, perché le “comunicazioni di positività non associate a sintomi determinano una sovrastima del fenomeno sul Paese”. Eppure il 4 marzo si dava conto “che il flusso informativo dei dati dal territorio continua a presentare forti criticità che impediscono e rallentano la corretta analisi epidemiologica e di conseguenza le azioni in risposta ai bisogni urgenti delle strutture sanitarie”.
La zona rossa
Se le strutture sanitarie venivano considerate a rischio, come è stato possibile non istituire una zona rossa? Sempre Pesenti riguardo agli scenari del ricercatore della fondazione Kessler , ha dichiarato che nessuno ai tempi, per quanto ne sapesse, aveva informato il presidente della Lombardia Attilio Fontana, l’assessore e il direttore generale del Welfare, Giulio Gallera e Luigi Cajazzo. Come fu possibile? Eppure la situazione sembrava sin da subito grave. “Ricordo – ha aggiunto Pesenti – che dalle previsioni era evidente che la struttura che avrebbe subito l’impatto peggiore era la terapia intensiva, da catastrofe”. E che quindi, alla fine di febbraio, aveva “affermato con forza la necessità di adottare delle restrizioni”.
E l’Oms? Francesco Zambon – ex ricercatore dell’organismo dell’Onu e colui che ha rivelato, tra l’altro, che il piano pandemico italiano era datato 2006 – aveva stimato al 26 marzo “2000 pazienti in terapia intensiva”. Chiese così “immediate misure restrittive” e di “chiudere i confini della Lombardia”, in quanto era una “questione di vita o di morte”. Ma dall’Oms “si mostrò esitazione” e dubbi sulla “scientificità delle azioni richieste”.