Una fortezza da 7.500 metri quadrati in cemento armato, costruita a tempi record per ospitare uno dei più grandi eventi giudiziari della storia d’Italia: il primo maxi processo alla mafia.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, trucidati trent’anni fa nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, negli anni 80, in piena lotta alla mafia, si trasferirono in uno dei piani dell’enorme Palazzo di Giustizia di Palermo per mettere in piedi quel maxi processo che portò a rompere finalmente le catene delle cosche mafiose in quella regione italiana. Quelle stanze oggi sono diventate un museo dove tutto è fermo a quei giorni, un perenne ricorso alla memoria di chi ha sacrificato la vita per la “libertà” del nostro paese.
Falcone e Borsellino sono i due magistrati palermitani, legati da grande amicizia, uccisi nel 1992, a distanza di pochi mesi uno dall’altro, da Cosa Nostra. Erano due uomini di eccezionale onestà, coerenza, con un grande senso del dovere, che dedicarono tutta la loro vita alla lotta contro la mafia.
Ci sono voluti ben trent’anni prima di acciuffarlo, trent’anni di latitanza per Matteo Messina Denaro, arrestato all’inizio del 2023 mentre si recava presso una clinica per un controllo medico. Finiva così l’avventura da uomo libero, anche se da braccato, dell’ultimo boss di Cosa Nostra, colui che aveva materialmente firmato le stragi più eclatanti di quei duri anni di lotta alla mafia, quelle dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la moglie di Falcone e 8 uomini della due scorte. Furono loro infatti a mettere in piedi il più grande processo penale della storia, quello contro un intero sistema che controgovernava in Sicilia da decenni e per questo furono uccisi. Una vendetta, un segnale, un avvertimento.
Fu chiamato maxi processo per i numeri spaventosi che si portava dietro: 475 rinviati a giudizio, dei quali 207 detenuti e 121 latitanti. Lungo l’elenco dei capi d’imputazione: 450 complessivamente, su tutti l’associazione a delinquere di stampo mafioso che venne contestata a 377 tra boss e picciotti. I testimoni chiamati a deporre dall’accusa furono 413, 310 le parti lese e circa 300 gli avvocati chiamati a dimostrare l’innocenza dei propri assistiti. Per mettere in piedi tutto questo si è dovuta costruire una struttura apposita perché nessuna aula del Tribunale a Palermo era in grado di contenerlo, così in soli 6 mesi venne costruita, a fianco del carcere dell‘Ucciardone, un’immensa aula bunker, capace di resistere persino a eventuali attacchi di tipo missilistico.
Nel palazzo di Giustizia di Palermo, in uno dei mezzanini all’epoca venne anche costruito il cosiddetto “bunkerino”, dove si rifugiarono per lavorare lontani da occhi e orecchie indiscrete proprio i due giudici Falcone e Borsellino. Da alcuni anni queste stanze sono diventate un luogo di ricordi, dove ogni cosa è rimasta al proprio posto, uno dei rarissimi luoghi di vera memoria che esistono in questa città, piena di lapidi che, nell’indifferenza e spesso nell’incuria, tentano vanamente di ricordare nomi e crimini atroci di un passato fatto di tanto dolore.
Non ci sono solo le scrivanie dei due magistrati, i loro oggetti personali, le copie di atti fondamentali nella lotta a Cosa nostra, ma c’è anche quella che si potrebbe definire l’attrezzatura utilizzata per allestire il Maxiprocesso, con tutte quelle apparecchiature (ormai preistoriche) utilizzate per catalogare e consultare documenti. Vecchi computer oramai obsoleti che in quegli però ebbero un ruolo fondamentale per catalogare l’incredibile mole di documenti che servirono a inchiodare gli imputati alle loro responsabilità.
Ogni stanza era “allarmata” e partiva una sirena se i telefoni venivano intercettati, se si registravano vibrazioni sospette o se qualcuno provava a staccare la luce. Perché i giudici e i pochi fidatissimi collaboratori sapevano perfettamente a cosa stavano lavorando. Un piccolo luogo della memoria che deve essere da monito a tutti, ricordando come due uomini della Giustizia sapevano a cosa stavano andando incontro, ma avevano deciso di portarlo a termine ugualmente.