Indiana Jones 5, la recensione del controverso ritorno di una leggenda

Dal 28 Giugno in sala, Indiana Jones e il quadrante del destino si prende la responsabilità di chiudere la parabola narrrativa dell’archeologo più famoso di sempre

Tornare dopo 15 anni non è facile, farlo dopo 34, senza uno dei più grandi artisti dell’epoca contemporanea dietro la macchina da presa, appare a dir poco problematico.

Indiana Jones e il quadrante del destino, Notizie.com

E’ l’impresa che ha dovuto affrontare James Mangold con il quinto capitolo di Indiana Jones, che arriva a 15 anni da un quarto capitolo sostanzialmente cancellato dalla memoria degli appassionati, e a 34 da quel sontuoso terzo capitolo che consacrò la leggenda del professor Jones. Se all’equazione sottraiamo anche la presenza di Steven Spielberg alla regia, ecco che la paura di un clamoroso disastro si fa incombente. 

L’importanza di fare una scelta

Mi manca il deserto. Mi manca il mare. E svegliarmi ogni mattina chiedendomi quale meravigliosa avventura ci porterà il nuovo giorno. Quelli sono giorni passati ormai, o forse no…”, quando sentimmo queste parole nel primo trailer ufficiale di Indiana Jones – Il quadrante del destino, fummo investiti immediatamente da quel necessario sentimento di nostalgia, sul quale era inevitabile fare appello in un lungometraggio conclusivo per la saga. Il regista James Mangold, che diresse nel 2017 l’apprezzatissimo Logan, si è incaricato di una responsabilità piuttosto opprimente: concludere efficacemente la parabola narrativa di un’icona eterna, che ha segnato profondamente svariate generazioni.

Harrison Ford ringiovanito in Indiana Jones 5, Notizie.com

Una strada accidentata e impervia presentava a Mangold un bivio inevitabile: decidere di girare un film dotato di una propria personalità, con qualche timido rimando alla saga, ma comunque in grado di offrire uno sviluppo narrativo forte e indipendente, oppure rifarsi costantemente ai cavalli di battaglia dell’intoccabile trilogia degli anni ottanta, confezionando un grande parco giochi per gli appassionati meno esigenti, che avrebbero avuto semplicemente voglia di assistere ad un tributo dal budget spropositato (295 milioni di dollari in questo caso).  Probabilmente, uno dei problemi di questo quinto capitolo, è da rintracciare proprio in una mancata presa di posizione da parte di Mangold, che ha preferito portare a casa il cosiddetto “compitino”, ottenendo un comodo ma deludente compromesso: il regista newyorkese, difatti, confeziona un film d’avventura piuttosto canonico, nel quale vengono ricalcati fin troppo fedelmente gli schemi narrativi della saga, con la strategica e necessaria presenza di citazioni esplicite ad addolcire l’animo degli appassionati più fedeli. 

Il professor Jones senza Spielberg, può funzionare?

La lacuna più manifesta di questo capitolo conclusivo, risiede in ciò che tutti noi temevamo: dietro la macchina da presa non c’è lui, non c’è Steven Spielberg. C’è poco da fare, nonostante la fiducia concessa a Mangold e la speranza di riassaggiare la magia della trilogia, questo quinto capitolo conferma, se ce ne fosse stato bisogno, la grandezza e l’importanza di uno dei registi più amati di sempre. Qualche settimana fa, vi abbiamo riportato un commento di Spielberg durante una proiezione preliminare, che Mangold ha indetto per avere un parere: “Credevo di essere l’unico a saperne fare uno!”. La verità, caro Steven, è che questo film ci ha confermato, ancora una volta, il tuo irripetibile talento, il tuo stile inimitabile e la necessità di averti dietro la macchina da presa, perché la magia di Indiana Jones possa riprendere realmente vita. Sebbene la regia di Mangold risulti sempre corretta e mai sgradevole, l’orgasmo formale della trilogia pare appartenere semplicemente ad un’altra categoria.

Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta (1981), Notizie.com

Negli anni ottanta, Spielberg amalgamò l’estetica del cinema d’autore, alle vicende e i contenuti della produzione concepita per il grande pubblico, generando delle pellicole iconiche in ogni singolo fotogramma. Mangold, come da compito assegnato, applica l’estetica del Blockbuster, preoccupandosi più di restituire un risultato chiaro e generalmente gradevole, che di elaborare sequenze immortali. L’alchimia artistica che caratterizzò la collaborazione tra Harrison Ford e Spielberg, permise di ottenere quadri filmici scolpiti nella memoria degli appassionati. Al contrario stavolta, uscendo dalla sala, difficilmente ricorderete un’inquadratura o una sequenza per la sua bellezza formale e ciò, ha sensibilmente disinnescato la potenza evocativa del lungometraggio. La gestione della componente avventurosa, inoltre, risente del mal riposto utilizzo della computer grafica, che ne smorza pesantemente gli esiti filmici: la tangibilità del mondo rappresentato nei primi tre film, contribuiva in gran parte a restituire allo spettatore la sensazione che Indy stesse realmente toccando, odorando e camminando tra gli oggetti in scena. Attraverso il massiccio utilizzo della CGI (Computer Generated Imagery), Mangold ha inevitabilmente applicato un filtro alla messa in scena, che spesso apparirà come impalpabile.

Oltre la forma, il potenziale c’era…

Il rammarico più grande comunque, non è da imputare alla mancanza della mano fatata di Steven Spielberg, ma piuttosto allo scarso coraggio dimostrato in fase di scrittura. Difatti trama e narrazione, che in questo caso non hanno granché da invidiare agli esponenti più blasonati della saga, avrebbero potuto donare una personalità indipendente a questo quinto capitolo, ma si è deciso di non sostenere fino in fondo i presupposti di uno script più promettente di quello che ci saremmo aspettati: la vicenda che fa da sfondo a Il quadrante del destino, seppur priva di particolare originalità, svolge discretamente il suo compito e in alcuni casi, riesce perfino a convincere. Tuttavia, i potenziali esiti di una trama dagli spunti quantomeno sufficienti, vengono violentemente smorzati dal timore di osare. Ecco che, come accennato in precedenza, Indiana Jones e il quadrante del destino, non conquista ne la nobiltà di un’autonomia formale e contenutistica, ne l’efficacia emotiva di un prodotto esplicitamente concepito per tributare un’icona. 

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