Il ricercatore egiziano studente all’Università di Bologna ha parlato a Repubblica e spiegato la situazione
Tornato e celebrato dopo ventidue mesi di carcere. Patrick Zaki è rientrato in Italia, graziato dal presidente egiziano Al Sisi, con l’intervento massiccio da parte della presidente Giorgia Meloni, lui ha ringraziato, è rientrato nel Belpaese, ma presto tornerà in Egitto perché vuole lottare per le persone che non sono difese e che sono in carcere per motivi futili e politici. Ha rilasciato una lunga intervista a Repubblica e si parte proprio dai diritti umani che in Egitto non è che siano proprio salvaguardati come nei paesi occidentali, per internderci. “Sebbene ci siano state numerose recenti liberazioni, in carcere restano ancora tanti accusati di reati d’opinione e fra questi mi preme ricordare Alaa Abdel Fatah e Ahmed Douma. Io sono libero, ma se il regime egiziano vuole davvero dimostrare apertura e cambiamento, conceda la grazia anche ai tanti in prigione per gli stessi motivi”.
“Ci sono anche altre questioni da risolvere: la detenzione preventiva, ad esempio, dura anni e in un Paese dove si finisce in carcere anche solo con un post su Facebook, è un problema serio”, dice Zaki. che poi spiega il motivo del perché ha fatto il nome di due persone in particolare Alaa Abdel Fatah e Ahmed Douma: “Leader della rivoluzione del 2011, sono figure molto note, hanno davvero ispirato la mia generazione. Fatah è chiamato il “Gramsci della nostra era”, un intellettuale che anche dal carcere continua a scrivere e ad investigare. Ha appena pubblicato un libro importante e molto informato. Douma è invece la persona accusata di reati d’opinione che sta da più tempo in carcere, 11 anni. Mi è molto caro, è stato mio compagno di cella”.
L’esperienza in carcere non è stata proprio una passeggiata, come non lo è mai per nessuno, ma questa in particolare lo è stata di più, considerando anche il fatto che era sempre sulla bocca di tutti: “Ho sofferto il tempo che non passava mai e la lontananza dai miei cari. Temevo di non avere più futuro, di non poter terminare gli studi, di perdere ogni cosa. Chi finisce in carcere ne esce cambiato e io sto lavorando duro per tornare a essere la persona che ero prima: dopo tanto tempo rinchiuso, anche solo aprire la porta e uscire, essere socievole, affrontare la gente è difficile. Il paradosso è che mi hanno arrestato per aver scritto un articolo sulla minoranza copta e molte delle cose che denunciavo sono state poi migliorate dallo Stato”.
Cosa succede in Egitto, eppure uno come al-Sisi si presenta come grande difensore della minoranza copta, dovrebbe essere quasi una garanzia, ma invece non sembra essere così: “Dei progressi ci sono stati. Ad esempio, leggi che gli permettono di costruire nuove chiese. O sulle questioni di eredità: le donne non devono più sottostare alle regole della Sharia, che privilegia i maschi, e possono avere la loro parte secondo la legge copta. Ma le discriminazioni restano: in tribunale, per dire, la parola di un copto vale meno di quella di un musulmano ed è inaccettabile. C’è ancora molto da fare per loro e per tutte le altre minoranze religiose che vivono in Egitto