Lazio e Roma: due modi diversi di intendere la passione, la storia e la gestione di due società antiche costrette da sempre a dividersi nella piccola rivalità cittadina
Dicono che sia il sale del calcio, il vero motivo per cui dopo, prima ogni domenica, ora praticamente dalle due alle tre volte a settimana, abbiamo un appuntamento fissato nella nostra agenda del cuore. La rivalità, il campanilismo sono da sempre lo spirito guida che ti porta a rivaleggiare per primeggiare, in qualsiasi campo, figuriamoci in quello dove la realtà si scontra con l’irrazionalità.
La passione e il tifo per una squadra di calcio non si può spiegare, non si può provare a interpretare, va semplicemente vissuta. Vivere il calcio da tifoso in una grande città è già operazione complicata, viverlo in una città come Roma dove di squadre ce ne sono due, ben stratificate nel tessuto sociale è impresa da cuori forti. Sei sempre in competizione, dalla prima giornata all’ultima dell’ennesimo campionato, anzi quando finisce la stagione e inizia il calciomercato nella fiera dei sogni sotto l’ombrellone ci si sfida a chi sogna più in grande.
La città di Roma nel calcio è tutto questo, un derby continuo che si perpetua da sempre o meglio da quando nel 1927 decisero di creare a tavolino una squadra che potesse rivaleggiare con quella che aveva cominciato a giocare a calcio in città. In questi anni i protagonisti che hanno segnato la storia di Lazio e Roma sono tanti e tutti hanno avuto un ruolo fondamentale nel costruire questo romanzo. Oggi alla guida delle due società ci sono due Presidenti molto diversi, praticamente agli antipodi. Claudio Lotito dalla parte laziale e Dan Friedkin da quella giallorossa. Un solo punto in comune: il ruolo nelle rispettive società. Vengono da storie diverse, da ambiti diversi, da nazioni diverse e quindi culture diverse. E a tutte queste differenze naturali si sono aggiunte le opposte narrazioni sul rispettivo operato. Due presidenti tratteggiati dai media quasi per esaltare ancora di più la poca affinità.
Ripartendo faticosamente dai loro punti in comune, senza farci attrarre ancora dalle molteplici distinzioni, si tenta l’ individuazione del fattore denominazione comune: realizzare successi e risultati con l’impresa calcio, dove è valido l’intento di riuscire nella vita e negli affari. Ma torna subito a galla la diversità. Per il presidente della Lazio questa appena cominciata sarà la ventesima stagione da presidente della S.S. Lazio, un record oramai in 123 anni di storia, mentre Friedkin è al comando della A.S Roma soltanto dal 2020, troppo poco per dare un giudizio, visto che arriva dopo altre presidenze “americane”.
Probabilmente il calcio moderno è capace più agevolmente di attrarre proprietà “globalizzate”, ma poi non ci si può vantare di possedere e coltivare radici profonde con una città se si fa del tutto per cercare di essere internazionali. Il Lotito, arrivato da perfetto sconosciuto nel mondo del calcio, ha capito giorno dopo giorno, anno dopo anno, cosa significasse il senso di appartenenza e quella famiglia chiamata Lazio. Ha combattuto, ha litigato, ha discusso, ma non ha mai provato a snaturare il suo modo di vedere le cose e di portare avanti un’ “azienda” diversa dalle altre.
Fare “impresa” poi è una missione eccezionale. Ma è valida anche la tesi che l’impresa eccezionale potrebbe essere proprio la normalità. Una conduzione senza fronzoli, efficace, magari non popolare, anzi, addirittura impopolare, ma che poi conserva l’ambizione di portare a casa risultati: sportivi, di botteghino, di marketing e di consenso.
I due “eroi” hanno adottato, anche qui, strategie opposte, che questi ultimi giorni di acquisti e di esposizione mediatica hanno ulteriormente sottolineato.
Da una parte, la società straniera, silente, riservata, che fa della sua strategia di scarne (se non assenti) dichiarazioni un tratto distintivo e approvato perché considerato poco appariscente e concreto. A volte persino complesso da accettare dai suoi principali “dipendenti” sportivi.
Dall’altra una proprietà italiana, di stampo tradizionale e di conduzione familiare che eccede nelle esternazioni, tanto da alimentare dubbi sulla capacità di incassare dei propri “dipendenti” sportivi, rischiando ogni volta che l’esegesi di tali comportamenti offra il fianco ai propri detrattori.
Ma poi la spesa al mercato e la mostra dei propri acquisti sconfessa e rovescia completamente le descrizioni appena tratteggiate.
Il presidente silente si trasforma in supereroe, un Tom Cruise a metà strada tra Top Gun e Mission Impossible, dove per missione impossibile si intende l’acquisizione di allenatori e calciatori apparentemente inarrivabili, economicamente e miracolosamente compatibili, ma che hanno un impatto superiore rispetto anche alle loro reali condizioni di forma.
Il presidente oratore, invece, sul mercato si conferma più formica e meno cicala, più attento alla prospettiva di gestione, ma stavolta senza lesinare troppo. Un difetto? Non conduce aerei, semmai inserisce una linea di volo come sponsor sulla maglia da gioco, non mette la faccia sulla passerella, ma la lascia ai suoi nuovi calciatori. Mettendosi da parte e senza neanche attendersi un 10 in condotta.
A volte l’impresa eccezionale è davvero essere normali, come è eccezionale la capacità di comprendere che questi resteranno modelli lontanissimi e difficilmente ricongiungibili.
Se non in occasione dei derby di stagione.