L’ex capo dipartimento degli interrogatori dello Shin Bet conosce bene il numero uno politico dei terroristi: “Diceva tanto vi uccideremo tutti”
Un pazzo, ma non esaltato, bensì intelligente. “Yahya Sinwar non si arrenderà mai. E non accetterà mai di lasciare Gaza per trasferirsi da qualche altra parte. Preferisce morire da martire: pensa di aver vinto, di essere diventato un eroe per il mondo arabo per aver iniziato una grande guerra nel nome dell’Islam. E sono certo che creerà problemi a Israele fino all’ultimo istante della sua vita“. Yanya Sinwar, per chi non lo conoscesse è il capo politico di Hamas e a raccontare chi è, cosa è e che cosa rappresenta è l’ex capo degli interrogatori dello Shin Bet (l’intelligence israeliana), Michael Koubi che a Repubblica racconta per filo e per segno cosa pensa e quello che ha in mente di fare, visto che lui ha avuto la possibilità di conoscerlo direttamente, avendolo interrogato più volte.
Per capire chi è Michael Koubi è non solo colui che interrogava i terroristi palestinesi, ma da ex capo del Dipartimento Interrogatori ne ha trattati tanti e ne conosce ogni lato, sia dal punto di vista della filosofia ma anche il lato strettamente strategico-militare. Koubi hHa interrogato tutti i capi di Hamas, compreso il fondatore, lo sceicco Yassin, ma con Sinwar ha passato “dalle 150 alle 180 ore“, dice lui che poi riprende: “Per questo il 7 ottobre ho capito subito: era quello che aveva promesso, quello che per vent’anni aveva sognato. Ero furioso. Mi è stato subito chiaro che c’era lui dietro“.
Il 7 ottobre, il giorno del massacro e dell’assalto di Hamas, Koubi ricorda tutto perfettamente e si ricordava perfettamente tutto quello che faceva e diceva Sinwar: “I suoi occhi: quelli di un assassino spietato. In tutto il tempo che abbiamo passato insieme non ha mai riso, mai sorriso. Altri di Hamas lo hanno fatto: lui no. Ricordo esattamente le sue parole: “Un giorno, vedrete, vi uccideremo tutti”. Mi ha raccontato per filo e per segno quello che avrebbero fatto: che poi è quello che hanno fatto il 7 ottobre“.
Non ha mai avuto dubbi che dietro a quell’attentato e a tanti altri, ma soprattutto il 7 ottobre c’era lui, tanto che ricorda bene ogni parola, ogni sguardo e quasi ogni pensiero e parola mai detta, bastavano gli occhi: “Dalla prima volta che l’ho interrogato, nel 1989. Lo ha ripetuto più volte. Abbiamo parlato a lungo, sapevo che aveva ucciso dodici persone: mi ha raccontato come. Senza battere ciglio: molte le ha uccise con un machete, perché secondo lui dovevano soffrire. Una volta mi disse di come aveva eliminato un membro di Fatah, che sospettava di collaborare con Israele: il fratello militava in Hamas, gli ordinò di convocare l’uomo e mentre arrivava fece scavare una fossa. Lo buttarono dentro e lo coprirono di terra: sepolto vivo, senza neanche una domanda, senza nulla, con un fratello costretto ad ammazzare l’altro. Anche per una persona come me, abituata a certi racconti, è stato difficile togliersi dalla testa quelle immagini».