Almeno nove persone sono rimaste uccise nell’attacco pakistano nella città iraniana di Savaran. Tra loro, quattro bambini e tre donne.
Il colpo, che a detta dell’intelligence di Islamabad è stato sferrato contro “gruppi militanti anti-pakistani all’interno dell’Iran”, arriva a pochi giorni dal raid iraniano in territorio pakistano, “per demolire le basi del gruppo separatista sunnita Jaish ul-Adl”, come ha dichiarato il portavoce del Ministero degli Esteri di Teheran, Nasser Kanani.
Ma cosa sta succedendo? E quali potrebbero essere le possibili conseguenze di questa situazione? Lo abbiamo chiesto a Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Ispi.
Dottore, che idea si è fatto?
“Possiamo leggere la situazione tra Iran e Pakistan da due diverse prospettive. La prima, sul piano delle relazioni internazionali che interessano tutti i Paesi coinvolti a vario titolo in questa guerra allargata. L’Iran, per la prima volta nel breve periodo, ha colpito direttamente, senza far ricorso agli attori di prossimità, una serie di obiettivi in prossimità e in lontananza come l’Iraq, la Siria e il Pakistan. Ciò può essere ricondotto alla volontà politica di mostrare che c’è e che ha la capacità di colpire anche a grande distanza”.
In poche parole l’Iran ha dato un messaggio a Israele?
“Sì, l’Iran ha voluto dimostrare che ha la possibilità di colpire anche Israele: è un messaggio indiretto e si colloca sul piano delle relazioni internazionali con un sano realismo. L’Iran però, risponde e si impone sulle relazioni internazionali ma non sul piano di battaglia: è bene evidenziare che non colpisce nessuno degli obiettivi riconducibili a Usa, Regno Unito e Israele, che potrebbero rispondere in maniera energica. Quindi quella dell’Iran è una dimostrazione di forza, ma certamente limitata”.
Qual è l’altro piano?
“Quello della storia dei conflitti in cui è coinvolto l’Iran. Questo attacco non ci sorprende, anzi è prevedibile. Colpire il gruppo Jaish ul-Adl è una conferma della policy adottata dal regime iraniano. 2013, 2016 e 2024 sono gli anni in cui l’Iran ha colpito questo gruppo terrorista. Oggi si chiama Jaish ul-Adl, ma in precedenza il suo nome era riconducibile più precisamente allo Stato islamico. Nel 2013 il gruppo aderì allo Stato islamico, benché sia un gruppo nazionalista che usa il terrorismo come tecnica di combattimento. Il fatto che l’Iran abbia colpito Jaish ul-Adl dopo circa 10 giorni dall’attentato di cui è stato vittima, suggerisce un possibile coinvolgimento del gruppo come responsabile. Ma anche se l’attacco è stato rivendicato, non abbiamo prove che sia stato effettivamente sferrato dallo Stato islamico. Però se a ciò aggiungiamo che i due gruppi sono vicini, abbiamo qualche elemento in più per dare ragione all’Iran sui responsabili dell’attentato”.
Quali sono i rischi di questa situazione?
“Non credo che ci possa essere un’escalation tra Iran e Pakistan. Tant’è che Islamabad ha dato una risposta diplomaticamente molto scontata e coerente: ha ritirato l’ambasciatore, si è riservata di rispondere quando opportuno e in parte l’ha fatto inviando aerei militari sul confine iraniano. Ma al di là della violazione della sovranità territoriale, già grave, l’azione iraniana non ha colpito obiettivi pakistani. Il gruppo terroristico che in questi ultimi anni si è impegnato contro le imprese cinesi sulla bretella pakistana della Via della Seta, ha alleggerito il lavoro dell’esercito pakistano nel limitare la capacità di questo gruppo. Ed è anche vero che quest’ultimo potrebbe essere finanziato dall’Arabia Saudita, con cui la Cina ha avviato un accordo negoziale. Di fatto però, non è stato il Pakistan ad essere colpito direttamente dall’Iran, ma un obiettivo terrorista in territorio pakistano. Per questo non sono convinto del rischio escalation, non credo che ci sarò una manifestazione di risposta pakistana, a parte azioni militari mirate, uso di armi a basso impatto, per poi tornare all’interno dei paletti della diplomazia”.
Che ruolo avrà la Cina nella mediazione tra Iran e Pakistan?
“In questo momento la Cina è l’attore che ci sta perdendo meno di tutti. Anzi, si sta avvantaggiando, perché gli Usa sono impegnati a sostenere Israele e Ucraina. Dato questo vantaggio, c’è da aspettarsi che Pechino attenda per poi valutare i vantaggi da cogliere al momento opportuno. La Cina potrebbe mirare a ottenere lo sbocco sul mare sulla Via della Seta quindi la possibilità di aggirare tentativi di contenimento anti-cinese da parte degli Usa. La Cina potrebbe avere un ruolo di mediatore tra le parti, perché è in buoni rapporti sia con Islamabad che con Teheran”.
Cosa potrebbe portare un’eventuale vittoria di Donald Trump negli Usa?
“Sicuramente una conferma ma anche un maggiore impegno da un punto di vista anche comunicativo a sostegno di Israele”.
Come si tradurrebbe?
“Si tradurrebbe nella fornitura di equipaggiamenti e aiuti militari e intelligence e presenza militare prevalentemente navale, ma con capacità di proiezione anche terrestre e aerea a sostegno della guerra Israele-Hamas”.
E cosa cambierebbe nei rapporti tra Usa e Ue con Donald Trump?
“In questo caso non sono ottimista come lo sono nei confronti di Israele. Temo che i contribuenti americani siano sempre meno contenti di sostenere una guerra a supporto dell’Ucraina, che non ha una prospettiva favorevole. Kiev è ben equipaggiata, ma non al punto da poter vincere la resistenza in difesa delle posizione conquistate dalla Russia. E non ha la capacità in termini di uomini né per poter condurre una ormai improbabile controffensiva, né per affrontare una guerra di attrito e logoramento sul medio-lungo periodo. Quindi il contribuente americano che sceglie il suo rappresentante al Congresso, determina quanto e se l’amministrazione americana può dare in termini di aiuti militari. L’opzione Trump potrebbe di fatto portare all’indebolimento del sostegno all’Ucraina, all’avvio di un sostanziale riconoscimento di fatto delle conquiste territoriali russe, uno stallo sul piano politico e diplomatico che nel giro di qualche anno aprirebbe ad ulteriori rivendicazioni territoriali da parte della Russia, che potrebbero portare all’annullamento dell’Ucraina stessa. In questo scenario, l’Europa è assente e impotente. È venuta meno la spinta energica e unanime che ha caratterizzato il sostegno all’Ucraina ed è inconsistente, perché in termini di aiuti militari l’Europa non può, perché non ha”.