Se ne è andata un’icona del calcio italiano, si era sentito male per un attacco di cuore
Gigi Riva non c’è più. E’ morto Rombo di Tuono. Se ne è andato in silenzio. Quasi senza fare rumore. Lui che quando giocava era un guascone in campo e di chiasso ne faceva parecchio, andava dappertutto e si faceva sentire. Fuori dal campo no, nulla. Introverso e silenzioso, statuario. E bello, un idolo negli anni ’70. Aveva 79 anni, era nato a Leggiuno, un paese in provincia di Varese, il 7 novembre del 1944.
E’ morto all’ospedale Brotzu di Cagliari, presidente onorario del Cagliari Calcio e attaccante simbolo della squadra sarda con cui aveva vinto l’unico scudetto dei rossoblu nel 1970, e della Nazionale. Riva era ricoverato nel reparto di Cardiologia. E’ stato un simbolo del calcio italiano, della nazionale e soprattutto del Cagliari. Un dolore immenso per l’intero sport italiano. Una leggenda del nostro calcio, una bandiera dell’Italia e del Cagliari, col quale vinse uno scudetto.
E a raccontare gli ultimi istanti di vita di Gigi Riva è il primario di Cardiologia Marco Corda: “Stamattina ho cercato di convincerlo a sottoporsi all’intervento che gli avevamo prospettato. Mi ha detto che non se la sentiva, che aveva paura e che voleva comunque consultare coi parenti prima di prendere una decisione così importante. Gli ho spiegato che la situazione coronarica era particolarmente grave e che andava fatto un tentativo di risoluzione con l’angioplastica, ma lui è stato deciso nel chiederci di non farlo e di consentirgli di ragionarci sopra”.
Non si dà pace il primario, anche amico personale di Riva: “L’avevo anche informato del rischio di morte. Quando mi ha chiesto di non eseguire l’angioplastica l’abbiamo riportato in reparto. Ho convocato anche il figlio per ragionare insieme sul da farsi e ho spiegato le motivazioni per cui l’intervento sarebbe stato necessario. Riva mi ha detto ‘Grazie tante, dottore’. E io gli ho risposto: “Non si preoccupi, saremo sempre noi in debito con lei’. Era quello che sentivo davvero”.
Una carriera fantastica. Meravigliosa. L’Italia senza Gigi Riva perde un pezzo della sua storia. Un attaccante formidabile, con un sinistro che non perdonava, racconta chi l’ha visto giocare con la maglia dell’Italia e del Cagliari. Una media di oltre un gol ogni due partite, uno dei calciatori italiani più forti di sempre. E due grandi amori: il Cagliari e la Nazionale. Riva, sardo d’adozione, lui di Leggiuno, un paesino vicino a Varese. Era conosciuto da tutti col soprannome di “Rombo di tuono”, che gli venne dato da Gianni Brera nella stagione dello scudetto nel ’69-70, trascinando il piccolo Cagliari al titolo a suon di reti, ben 21. Uno scudetto storico e indimenticabile. Era il Cagliari di Scopigno. Ma Riva fu decisivo anche nella vittoria degli Europei 1968 con la Nazionale, con la cui maglia detiene ancora oggi il record, difficilmente battibile nei tempi moderni, di 35 reti in 42 partite ufficiali (ad una media realizzativa di 0,83).
Centottanta centimetri per 78 chilogrammi, potenza unita alla classe per una miscela unica nel suo genere. Legatissimo alla squadra sarda tanto da aver assunto anche la presidenza del club per pochi mesi, nella stagione 1986-1987, per poi essere nominato presidente onorario a fine 2019. Gigi era un mancino naturale, potente e straripante, aveva la numero 11 stampata sulla pelle. Iniziò a giocare come ala sinistra per poi diventare un centravanti e un bomber micidiale. Arrivò una volta secondo dietro Rivera e terzo dietro a Muller e Moore nelle edizioni 1969 e 1970 del Pallone d’Oro, forse uno dei suoi più grandi rimpianti. Talmente amava il Cagliari che fu il primo a dire no alla Juventus, con Boniperti che venne fino in Sardegna per convincerlo, per poi ricordare bene quel giorno: “Riva il mio più grande rimpianto come giocatore, ma ho avuto la fortuna di conoscere l’uomo e vale molto di più…“. Parole che fecero commuovere Riva.
Storica la partita a cui partecipò nei mondiali del 1970 con la Germania, finita 4-3, con Riva che segnò la rete del 3-2. L’amore per la Nazionale, poi, lo porterà poi a ricoprire il ruolo di team manager dai primi anni Novanta fino al 2013, accompagnando gli azzurri fra trionfi – il Mondiale del 2006 vinto a Berlino – e delusioni, come le due finali perse agli Europei (2000 e 2012) prima di decidere di farsi da parte, dopo essere stato un punto di riferimento per generazioni di campioni. Se ne è andato un giocatore immortale, un uomo semplice, tutto d’un pezzo e soprattutto dolce e buono.