Trash fashion: l’Italia, il Ghana, l’Antitrust e la moda veloce poco green

La nostra inchiesta basata su dati, informazioni e riscontri: un viaggio Italia – Africa, ecco perché l’abbiamo denominata “Trash fashion”.

C’è un filo rosso (di tessuto sintetico) che collega l’Italia ed il Ghana. Passa per i cassonetti gialli delle nostre città, per i centri di smistamento, per le navi e per gli aerei, per i mercati africani, per i fiumi e per le spiagge. E poi passa per i siti web e per le app, per il marketing sin troppo “green” e per la moda troppo veloce. Quello dell’ultra fast fashion è un filo intrecciato, contorto, difficile da sbrogliare. Ci sta provando l’Antitrust italiana, che ha messo nel mirino Shein, uno dei colossi mondiali del settore, per presunta pubblicità ingannevole.

A seguire un capo del filo c’è anche Greenpeace, che ha diffuso un report che colloca l’Italia al nono posto tra gli esportatori mondiali di indumenti usati in Ghana. Finiscono qui, prima nei mercati e poi nelle discariche abusive o bruciati, contaminando gravemente l’aria, il suolo e le acque, i nostri capi di fast fashion. Ci sta provando anche la stessa Shein, che ha messo in campo una serie di iniziative per la sostenibilità e l’impatto sociale. Le quali, nonostante le ampie campagne pubblicitarie, stanno dando tutt’altro che i risultati sperati.

E allora ci proviamo anche noi a sbrogliare la matassa. Mercoledì 25 settembre scorso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust) ha dato notizia di aver avviato un’istruttoria nei confronti di Shein per possibile pubblicità ingannevole. L’Autorità presieduta da Roberto Rustichelli vuole vederci chiaro sui messaggi promozionali presenti sul sito web italiano shein.com, gestito dalla Infinite Styles Services Co Limited con sede a Dublino.

Sono due in particolare gli aspetti su cui l’Antitrust si sofferma: la possibile ingannevolezza di alcune affermazioni ambientali contenute in diverse sezioni del sito web; il generico impegno anche nell’ambito del processo di decarbonizzazione delle proprie attività. L’Antitrust, da noi contattata, ha mantenuto il massimo riserbo sulla genesi dell’indagine, dunque non sappiamo se ha agito d’iniziativa oppure se ha aperto l’istruttoria a seguito di segnalazioni. Ciò che sappiamo è che, qualora venissero confermate le irregolarità, Shein rischia una sanzione da 10 milioni di euro per pratica commerciale scorretta.

L’Antitrust: “Asserzioni ambientali confuse”

Le “affermazioni ambientali” di cui sopra sono facilmente reperibili online e riguardano in particolare la campagna “EvoluShein”. Secondo l’Autorità, a fronte della crescente sensibilità dei consumatori per l’impatto delle loro scelte di consumo sull’ambiente, la società cercherebbe di “veicolare un’immagine di sostenibilità produttiva e commerciale dei propri capi d’abbigliamento attraverso asserzioni ambientali generiche, vaghe, confuse o fuorvianti in tema di ‘circolarità’ e di qualità dei prodotti e del loro consumo responsabile”.

In effetti, il 5 settembre scorso, Shein ha presentato la nuova collezione “EvoluShein” parlando di 22 modelli realizzati con “materiali in viscosa di nuova generazione”, di una “fibra morbida e traspirante realizzata con scarti di cotone riciclato al 50%”, di “tessuti recuperati da scorte morte”. E poi di “economia circolare” e di un “software avanzato per reperire materiali in eccedenza di alta qualità che altrimenti andrebbero sprecati”.

Trash fashion: l'Italia, il Ghana, l'Antitrust e la moda veloce poco green
Trash fashion: l’Italia, il Ghana, l’Antitrust

Eppure, secondo l’Antitrust, la collezione di abbigliamento dichiarata “sostenibile” dalla società, potrebbe indurre in errore i consumatori riguardo alla quantità utilizzata di fibre “green”. Omettendo anche di informarli sulla non ulteriore riciclabilità dei capi d’abbigliamento. Abbiamo contattato Shein in merito all’inchiesta in corso in Italia.

L’azienda ha risposto con uno “statement”, ovvero con una dichiarazione dei valori fondanti dell’azienda. “Shein conferma la propria volontà nel collaborare apertamente con le autorità competenti italiane, fornendo il supporto e le informazioni necessarie. – hanno fatto sapere dall’ufficio stampa – L’azienda, inoltre, conferma il proprio impegno a rispettare le leggi e i regolamenti nei mercati in cui opera e a operare in piena trasparenza nei confronti dei propri clienti”.

La questione ambientale, però, è molto ampia. Per non perdere il filo, per l’appunto, la suddividiamo in due: impatto ed emissioni. Sul primo argomento, approdiamo finalmente in Ghana. Nella capitale, Accra, c’è l’enorme mercato di Kantamanto, dove si vendono abiti di fast fashion ed ultra fast fashion di seconda mano. Un luogo che sta diventando il simbolo del fallimento dell’economia circolare nel mondo. Il 12 settembre Greenpeace Africa e Greenpeace Germania hanno pubblicato il rapporto “Fast fashion, slow poison: the toxic textile crisis in Ghana”.

Il dossier documenta l’impatto devastante degli indumenti usati dal nord del mondo su ambiente, comunità ed ecosistemi nello Stato dell’Africa occidentale. Ogni settimana, circa 15 milioni di vecchi vestiti arrivano a Kantamanto. Ma quasi la metà di questi indumenti è invendibile. Per volumi importati, il Ghana è anche la seconda destinazione di abiti di seconda mano provenienti dal continente europeo.

L’Italia è la nona esportatrice a livello mondiale, terza in Europa, dietro a Belgio e Germania. Soltanto nel 2022 dal Belpaese sono arrivate in Ghana quasi 200mila tonnellate di indumenti usati. I primi dieci brand di capi invenduti nel mondo sono tutti marchi del fast fashion. Tra loro H&M, Zara, Primark. Tra i “nuovi arrivati” figurano anche molti articoli di Shein. Come fanno ad arrivare in Ghana i nostri abiti usati? La maggior parte proviene dai famosi cassonetti gialli sparsi a migliaia in ogni città. Dai cassonetti si passa ai centri di raccolta che, a seconda della qualità dei tessuti, li suddividono per inviarli ai bisognosi, ai negozi dell’usato, ai mercati locali, alle imprese di recupero. Oppure vengono venduti all’estero.

Secondo l’Antitrust, la collezione di abbigliamento dichiarata “sostenibile” dalla società, potrebbe indurre in errore i consumatori
Il presidente dell’Antitrust Roberto Rustichelli

Il sistema di raccolta degli abiti usati nei Paesi Bassi, in Germania e nel Regno Unito è sull’orlo del collasso, a causa dell’eccesso di indumenti di seconda mano invenduti e di modelli di business inadeguati”, si legge nel dossier di Greenpeace. Molti dei vestiti usati che arrivano in Ghana finiscono in discariche abusive o vengono bruciati nei lavatoi pubblici, contaminando gravemente l’aria, il suolo e le acque. L’accumulo di rifiuti tessili sta anche soffocando gli habitat naturali, inquinando i fiumi e creando vere e proprie “spiagge di plastica” lungo la costa.

Le prove da noi raccolte mostrano chiaramente che l’industria del fast fashion non è soltanto un problema del settore moda, ma una crisi sanitaria pubblica a tutti gli effetti: questi indumenti stanno letteralmente avvelenando la popolazione di Accra. – ha dichiarato Sam Quashie-Idun, autore del report di Greenpeace – La situazione in Ghana riflette una mentalità neocoloniale in base alla quale il nord del mondo trae profitto dalla sovrapproduzione e dagli sprechi, mentre Paesi come il Ghana ne pagano il prezzo”. Shein non ci ha fornito un commento in merito al dossier dell’organizzazione ambientalista.

L’ultimo punto del groviglio del fast fashion è stato così denunciato dall’Antitrust: la società Infinite Styles Services Co Limited “enfatizzerebbe in maniera generica l’impegno anche nell’ambito del processo di decarbonizzazione delle proprie attività”. E dunque i succitati obiettivi ambientali indicati sul sito web “apparirebbero contraddetti dal consistente incremento delle emissioni di gas serra indicato nei rapporti sulla sostenibilità di Shein per il 2022 e il 2023”. L’impatto sul pianeta e sulle popolazioni e le emissioni sono questioni delicatissime per la produzione tessile.

Il Rapporto sulla sostenibilità e l’impatto sociale

Quest’ultima ha bisogno di molta acqua. Secondo i dati raccolti dall’Ue, si stima che l’industria tessile e dell’abbigliamento abbia utilizzato a livello globale 79 miliardi di metri cubi di acqua. Per rispondere alla domanda sempre più alta di abbigliamento a basso prezzo si produce troppo cotone, la cui coltivazione è una delle attività connesse alla moda meno sostenibili. Dalla produzione al trasporto: il 10% delle emissioni di gas serra è causato dalle industrie di abbigliamento, più di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme.

Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’intera Unione europea hanno generato circa 270 kg di emissioni di Co2 per persona. Shein ha pubblicato il 22 agosto 2024 il suo Rapporto sulla sostenibilità e l’impatto sociale del 2023. Nella nota di annuncio, alla sezione sulla decarbonizzazione, la società ha affermato di aver “ampliato l’uso di energia rinnovabile nelle sue operazioni e nella sua catena di fornitura”. All’interno del documento, però, si può ben dire che le cose non sono come appaiono.

Stiamo lavorando – si legge nel Rapporto – per mitigare il cambiamento climatico sia all’interno delle nostre attività sia in collaborazione con i nostri fornitori, verso il nostro obiettivo di ridurre le emissioni del 25% entro il 2030”. Per farlo, la società ha suddiviso l’impatto ambientale in tre ambiti. Il primo riguarda la combustione di combustibili fossili, emissioni di metano (Ch4), emissioni di idrofluorocarburi (Hfc) ed emissioni di anidride carbonica Co2 nelle operazioni dirette. Il secondo concerne le emissioni basate sul mercato derivanti dall’elettricità acquistata.

Il terzo, le emissioni di gas serra (Ghg) derivanti, tra le altre cose, dal trasporto e dalla distribuzione e dai rifiuti industriali generati nei magazzini gestiti da Shein. Per tutti e tre gli ambiti le tonnellate metriche di Co2e, ovvero l’unità di misura che riguarda l’impatto potenziale sul riscaldamento globale dei gas serra, è pressoché raddoppiata tra il 2022 ed il 2023.

L’azienda: “C’è ancora molto lavoro da fare”

Le emissioni dell’Ambito 3 – ha puntualizzato l’azienda – derivano principalmente dalla catena di fornitura, dai trasporti e da altre attività al di fuori del controllo diretto di Shein. Riconosciamo che abbiamo ancora molto lavoro da fare nel nostro percorso di mitigazione del clima e ci impegniamo a promuovere il progresso. Continuiamo ad adottare misure per dimostrare una maggiore responsabilità nel nostro percorso di decarbonizzazione”.

Il dossier documenta l’impatto devastante degli indumenti usati dal nord del mondo su ambiente, comunità ed ecosistemi nello Stato dell’Africa occidentale
Il dossier documenta l’impatto devastante degli indumenti usati (GREENPEACE FOTO) – Notizie.com

L’impatto sul pianeta e le emissioni corrono veloci, forse più della moda che li genera. Il filo rosso della fast fashion che stringe in una morsa il pianeta è sfuggevole, unto, bruciato e destinato alle discariche del sud del mondo. Ma è anche un filo d’oro. Ad oggi il mercato del fast fashion, secondo le stime della società di analisi e ricerche Statista, vale oltre 120 miliardi di dollari a livello globale. Per la buona pace dei 10 milioni di euro dell’Antitrust, dei nostri mercatini dell’usato e dei mercanti di Kantamanto, Accra, Ghana.

Gestione cookie