“Siamo pronti a tornare all’attacco e a combattere”. Israele non fa rientrare circa 60mila persone dell’area al confine: il segnale che la tregua è in bilico.
Mercoledì 27 novembre, grazie anche alla mediazione internazionale, Hezbollah e Israele sono arrivati all’accordo per una tregua. Ma da allora si sono verificate violazioni da parte di entrambi. Anche a Gaza la situazione è sempre più difficile.
Il cessate il fuoco dovrebbe durate sessanta giorni ma nei fatti è già in bilico. Le ostilità sono sembrano interrotte solo a livello politico e non sul fronte, dove la situazione tra il gruppo terroristico alleato di Hamas e Tel Aviv, è sempre più tesa. Analisti e media israeliani hanno parlato del 50% di probabilità che possa la tregua reggere.
“Non si considerano violazioni le scaramucce o qualche piccolo avvertimento sia da parte di Hezbollah che dell’esercito israeliano. Ma in realtà il rischio è più serio e molto reale”. Ad analizzare la situazione ai nostri microfoni è Matteo Giusti, giornalista di Limes, esperto in Medio Oriente.
Le parti in causa, Hezbollah e l’Idf (esercito di difesa israeliano) hanno reso note una serie di motivazioni per le quali la tregua potrebbe essere interrotta da un momento all’altra. I terroristi “fanno fatica anche ad avere un centro di comando che possa controllare tutti i comandanti delle varie aree. Non tutti seguono le regole generali”.
Il bollettino dei caduti di Israele parla di 2.500 e i 3.500 appartenenti a Hezbollah, con alcuni nomi importanti, tra cui Hassan Nasrallah. “Ma non ha parlato delle vittime civili e tutto ciò che è accaduto intorno. Soprattutto non ha fatto rientrare i circa 60mila sfollati dell’area al confine con il Libano. Se Tel Aviv non permette il ritorno a casa di queste persone è perché non è sicuro che la tregua regga. E questo è il segno più importante”.
Tregua lontana anche a Gaza
Se in Libano è difficile mantenere la tregua, “a Gaza è praticamente impossibile. Nonostante le pressioni dell’Onu, del Vaticano, di tanti Stati, e del presidente egiziano Al Sisi che si è impegnato in prima persona, le trattative sono ancora lontane”.
Israele è irremovibile: vuole la liberazione degli ostaggi e la sconfitta definitiva di Hamas. “Il Libano doveva essere podromico in un percorso che avrebbe portato al cessate il fuoco su Gaza. Se la tregua non riesce su un fronte secondario, figuriamoci se reggerà su quello principale”, continua l’esperto.
Le pressioni internazionali stanno accerchiando Netanyahu: “Ma ogni volta che aumentano, il premier israeliano raddoppia la forza con cui si trincera sulle sue posizioni – spiega Giusti – Ad esempio, eliminando i ministri, accusandoli di essere vicini alla trattativa. In generale, la linea politica è peggiorata negli ultimi mesi”, e le richieste di cessare i conflitti in Medio Oriente sono state vane.
La situazione potrebbe cambiare con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. “Gli Usa sono gli unici che Israele ascolta di più, ma vivono un momento di transizione e in questo momento sono più “deboli” nelle trattative”.
Alle elezioni presidenziali gli arabo-americani hanno abbandonato i democratici, accusando il governo di Joe Biden di non aver evitato la guerra in Medio Oriente. Adesso anche loro, proprio come la comunità internazionale, sperano in un cambio di rotta con l’arrivo del tycoon. “La pace proposta da Trump sarà sicuramente a favore di Israele. Ma gli arabo-americani sperano prima di tutto nella fine di questa tragedia nella quale stanno perdendo la vita molti civili, donne e bambini. I democratici non ci sono riusciti perché cercavano una soluzione giusta per entrambi i protagonisti della guerra”.