“Era tutto chiaro da molto tempo e si è fatto di tutto per negarlo. Per molti anni c’è stata una deliberata volontà di smontare i fatti, di sminuire la gravità delle denunce”.
E poi? “Poi sono arrivati i morti, gli ammalati, i comitati, i cittadini, le parrocchie. Non è stato più possibile negare la verità”. C’è un filo rosso che collega i pensieri di chi in queste ore riflette sulla condanna dell’Italia sentenziata oggi dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu).
La Terra dei Fuochi, l’area tristemente nota a cavallo delle province di Napoli e Caserta, in Campania, è stata oggetto per quasi trent’anni di un negazionismo dilagante. C’era chi sapeva, chi non voleva sapere, chi negava per convenienza. Accadeva nelle istituzioni come tra i cittadini. Nel frattempo, sotto terra i veleni creavano danni irreversibili. Sulla terra, invece, continuava a bruciare tutto tra quelle campagne.
Oggi è accaduto che la Cedu ha condannato l’Italia per inadempienza degli obblighi di elaborare una strategia globale per affrontare la situazione della Terra dei Fuochi, istituire un meccanismo di monitoraggio indipendente e stabilire una strategia di informazione pubblica al fine di proteggere i 2,9 milioni di abitanti della zona dallo scarico, l’interramento o l’incenerimento di rifiuti su terreni privati, spesso effettuato da gruppi criminali organizzati. Il caso Cannavacciuolo e altri contro Italia è stato presentato alla Cedu da 41 cittadini italiani e 5 associazioni poiché nella zona è stato registrato un aumento dei tassi di cancro e dell’inquinamento delle falde acquifere.
Insomma, lo Stato sapeva che i cittadini rischiavano la vita e non ha fatto abbastanza per informarli e proteggerli. Le dichiarazioni in apertura sono di Enrico Fontana, responsabile nazionale Ambiente e Legalità di Legambiente. È stata proprio l’organizzazione ambientalista a coniare il termine Terra dei Fuochi nel 2003. “Ma il primo rapporto sui traffici illegali che investivano le province di Napoli e Caserta risale al 1994. – ha spiegato Fontana, in esclusiva per Notizie.com – Lo Stato ha deciso di definire come Sito di interesse nazionale (Sin) perché gravemente inquinato, il litorale domintio-flegreo e il lago d’Avezzano nel 1998”.
Una storia assurda quella che il responsabile di Legambiente ci ha aiutato a ricostruire. E che ha portato la Corte europea a scrivere che già nel 2004 “erano state individuate 39 discariche abusive, di cui 27 presumibilmente interessate dalla presenza di rifiuti pericolosi. Nell’area di studio si è riscontrato un significativo incremento della mortalità per cancro, in particolare per quanto riguarda, tra gli altri, i tumori del polmone, della pleura, della laringe, della vescica, del fegato e dell’encefalo“.
Può sembrare incredibile, ma da una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Epidemilogia e Prevenzione di novembre 2004 è emerso che in quelle aree c’erano eccessi di patologie e di mortalità inspiegabili. Come se ci si trovasse davanti o nei pressi di una gigantesca industria inquinante che in realtà non c’era.
“Dopo le nostre denunce, c’è stato anche il lavoro egregio svolto dalla I Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti presieduta da Massimo Scalia. – ha continuato Fontana – La relazione è stata trasmessa alla Camera dei Deputati nel 1995. Era già descritta la gravità della situazione e l’inerzia delle istituzioni. Era tutto chiaro da molto tempo e si è fatto di tutto per negarlo. Se lo si denunciava si comprometteva l’economia locale, le persone non avrebbero più comprato i prodotti. Quindi chi denunciava esagerava, la situazione non era così grave”.
30 anni fa c’erano i flussi illegali che provenivano specialmente dal nord del Paese, che entravano in Campania attraverso un network di pseudo-imprenditori che mettevano a disposizione le discariche. Poi i rifiuti finivano interrati nei laghetti, sparsi nei campi o in discariche non autorizzate. Sono nel 2021, ad esempio, 17 anni dopo le denunce di Legambiente, si è chiuso il caso della discarica Resit con le condanne nei confronti di due imprenditori.
Nel 2003 sono invece cominciati gli incendi degli scarti di lavorazione di fabbriche e laboratori illegali che lavoravano anche per l’alta moda. Aziende che non esistevano e che avevano bisogno di liberarsi di quei rifiuti. Così di notte arrivavano i tir con gli scarti. Li gettavano tra le campagne, poi qualcuno li incendiava. Roghi enormi, notturni, di ogni colore, a seconda del materiale bruciato: viola, bianchi, rossi. A terra restava solo polvere bianca che veniva lavata via dalla pioggia.
“In quegli anni – ha raccontato il responsabile di Legambiente – arrivavano ordinanze dei Comuni che vietavano di tenere gli animali da cortile che potevano ingerire la diossina rimasta in terra. In provincia di Caserta sono state abbattute migliaia di bufale per latte inquinato da diossina. Già allora bisognava perimetrare, caratterizzare, bonificare. Era tutto negli atti istituzionali. Il decreto Terra dei Fuochi e il Patto del 2013 andavano fatti almeno 10 anni prima”.
Il Patto per la Terra dei Fuochi l’ha istruito l’allora viceprefetto Donato Cafagna, nominato dal Ministro Annamaria Cancellieri nel 2012. 9 anni dopo le prime denunce. Cafagna lavorava presso la Prefettura di Napoli. Un edificio enorme e molteplici stanze. Al viceprefetto era stata riservata una sola piccola scrivania. Ma Cafagna è di quelli testardi. Se in quegli anni ci sono state le prime risposte da parte dello Stato lo si deve soprattutto a lui. Oggi è prefetto di Torino.
Poi la criminalità si è evoluta, la filiera si è accorciata o allungata verso l’estero. L’attività di controllo è cresciuta, adesso ci sono i reati di inquinamento e disastro ambientale. Ma c’è un tessuto economico illegale che non si riesce a controllare. E quasi nulla è stato fatto per bonificare il territorio. “Con un decreto del 2020 – ha affermato Fontana – è stato dichiarato Sin la vasta area di Giugliano per la presenza di discariche. Se oggi andiamo sul sito del Ministero dell’Ambiente, risulta che da 5 anni la perimetrazione è ancora in corso. Se non hanno ancora stabilito cosa c’è e dov’è, non credo ci sia una vaga idea del progetto di bonifica”.
Il concetto è quello riassunto da Paolo Siani, medico, scrittore, già deputato. “Sapevamo che ci fossero dei veleni – ha commentato Siani ai nostri microfoni – e sapevamo che c’era bisogno di bonificare. Non c’era bisogno di dimostrare che fosse un veleno. I tempi della scienza sono più lunghi, ma quelli della ragionevolezza sono brevi. Se c’erano dei veleni, e c’erano, andavano tolti”.
Per molti anni però c’è stata non solo la negazione, ma anche la paura di denunciare. La svolta da parte della cittadinanza il 17 novembre 2013. Alla testa del corteo della manifestazione Fiume in piena c’erano cittadini, comitati, parrocchie. Non era più possibile negare la verità. Solo dopo sono arrivate norme e decreti. “Che non bastano. – ha detto Fontana – Servono risorse, impianti, progetti per scacciare via l’illegalità nella gestione dei rifiuti in quei territori e bloccare alla fonte tutto”.
Alla testa dei tanti cortei, al fianco dei cittadini, c’era don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata. “La sentenza è arrivata dopo più di 11 anni, pensavamo che la denuncia si fosse arenata. – ci ha detto don Maurizio – Il primo sentimento è di gioia profondissima ma intrisa di tanta amarezza. Il pensiero è per i tanti bambini, i tanti giovani che non ce l’hanno fatta. Oggi è morta una mamma di Orta di Atella di 48 anni. Un altro ragazzo di 40 sta lottando in ospedale. Sono morti due miei fratelli, ho perso un nipote e una cognata”.
“Abbiamo pagato tutti un prezzo altissimo, e sapere che queste persone si potevano salvare è di un’amarezza terribile. I peggiori nemici contro cui abbiamo lottato sono stati i negazionisti. Li abbiamo trovati dappertutto: tra gli agronomi, i politici, i camorristi, la gente comune. Ridimensionavano il dramma. Poi abbiamo avuto nel 2015 la prima legge sui reati ambientali. Prima di allora non c’era una normativa. L’Italia come sperava di sconfiggere questo mostro? Coloro che verranno dopo non potranno più fingere. Al di là di ogni altra cosa, per il futuro”.
Cosa c’è nel futuro della Terra dei Fuochi? Entro pochi anni lo Stato dovrà bonificare, oltre che risarcire. E poi attivare un monitoraggio indipendente, un’autorità che fornisca quante più informazioni possibili ai cittadini. “Ci auguriamo che difronte a questa sentenza – ha concluso Fontana – la politica tutta scopra uno spirito autentico di unità nazionale vera, piuttosto che ricercare le colpe, poiché le responsabilità sono bipartisan. La sentenza fa riferimento al diritto alla vita. I cittadini non erano a conoscenza dei rischi che correvano. Adesso, se le carte restano carte non servono a niente. Forse servono solo a mettere a posto la coscienza di qualcuno”.