Governo Meloni, sul presidenzialismo il Premier tira dritto

Il modello di riferimento è la Francia: «Sì al confronto con l’opposizione ma non ci faremo bloccare». Via libera anche all’autonomia differenziata

«Bicamerale…». C’è un’unica parola che non è stata neanche sussurrata dalla neopremier Giorgia Meloni, nel denso discorso d’insediamento davanti al Parlamento; ma sudi essa si fonderà la struttura stessa dello Stato. È la «Bicamerale» che s’ ha fare. Perché -afferma la Presidente del Consiglio- la Bicamerale sarà il mezzo bipartisan per riforma del presidenzialismo. Afferma, infatti, Meloni: «Siamo fermamente convinti del fatto che l’Italia abbia bisogno di una riforma costituzionale in senso presidenziale, che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare. Una riforma che consenta all’Italia di passare da una “democrazia interloquente” ad una “democrazia decidente”». Certo, la premier parla di molte rivoluzioni che il governo prepara ad accendersi: quelle su fisco e lavoro; sulle telecomunicazioni che volgeranno alle infrastrutture strategiche nazionali e alla sovranità digitale; sul sistema pensionistico che assicurerà le nuove generazioni e sulla nuova scuola che le abiterà.

Il presidente
Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni (Ansa)

Ma alla base di tutto, spicca la volontà di raddrizzare le gambe alla seconda parte delle Costituzione, già fiaccata dal combinato disposto del Rosatellum e dell’avvenuto taglio dei parlamentari. Gran parte dei costituzionalisti sa bene che la nostra sacra Carta assicura la rappresentatività, non la stabilità: e i 67 governi succedutisi in 75 anni ne sono la prova provata. Sicché, per raggiungere la definitiva stabilità politica, la premier oggi avanza fermamente la sua proposta di riforma: «Vogliamo partire dall’ipotesi di semipresidenzialismo sul modello francese, che in passato aveva ottenuto un ampio gradimento anche da parte del centrosinistra, ma rimaniamo aperti anche ad altre soluzioni». E aggiunge: «Vogliamo confrontarci su questo con tutte le forze politiche presenti in Parlamento, per giungere alla riforma migliore e più condivisa possibile. Ma sia chiaro che non rinunceremo a riformare l’Italia di fronte ad opposizioni pregiudiziali. In quel caso ci muoveremo secondo il mandato che ci è stato conferito su questo tema dagli italiani: dare all’Italia un sistema istituzionale nel quale chi vince governa per cinque anni e alla fine viene giudicato dagli elettori per quello che è riuscito a fare».

“La costituzione tedesca, che ha ls stessa età di quella italiana, è stata modificata già tre volte”

Il professore
Il Professor Sabino Cassese, presidente onorario della Consulta. esce dalla sua abitazione (Ansa)

Si va avanti, anche da soli, in pratica. E, per molti versi, Meloni ha ragione nello sfatare il mito -del tutto posticcio ancorchè ideologico- dell’intangibilità della Costituzione. Ne convengono illustri esperti, primo fra tutti Sabino Cassese. Il quale, da Presidente emerito della Consulta, sostiene sempre che la fattura della nostra Carta, benché rigida, fotografi lo Zeit Geist, lo spirito del tempo; e che modificarla «non è affatto un attentato alla Costituzione, Quella tedesca, che ha la stessa età di quella italiana, ha subito tre volte più modifiche di quella italiana». Naturalmente, più Meloni tira dritto, più le opposizioni insorgono, sorvolando sul fatto che lo straordinario sistema di autoconservazione della Carta stessa prevede l‘immodificabilità dei suoi principi fondamentali nella prima parte. E ignorando anche il fatto che i padri costituenti, nel confezionarla, tennero conto di equilibri politici e sociali vigenti nel 1948.

Ora, è passato soltanto un mese da quando l’attuale ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, giurista anch’ egli, accennava alla Costituzione «bella» sì, ma, a settant’ anni, «migliorabile», e venne sommerso da sinistre contumelie. Eppure la Costituzione è lo specchio del tempo. Si può, a volte si deve, cambiarla. I migliori costituzionalisti e scienziati delle politica sono anche i più onesti ad ammetterlo: Valerio Onida («nella storia il cambiamento è una cifra costante»), Alfonso Celotto («va cambiata nella seconda parte considerando i pesi e i contrappesi»). E pure, a ritroso, Norberto Bobbio, Giorgio Napolitano, Gianfranco Pasquino. Perfino Beppe Grillo («la Costituzione non è il Corano, il Vangelo o il Talmud»). Urge metterci mano. Si tratta di vedere come. Per esempio, Renzi e Calenda hanno un’idea di riforma che si concentra sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio, a cui s’ aggiungono la revisione del Titolo V° e la fine del bicameralismo. Ma è una proposta lontana da quella del centrodestra che prevede, tra l’altro: l’elezione diretta del Capo dello Stato ogni 5 anni, la sua facoltà di presiedere il Consiglio dei ministri e di revocare i ministri stessi (oggi non si può, cruccio di cui si lamentavano spesso Berlusconi e, dicono, Prodi). Sicché per adire al blindatissimo sistema di revisione previsto dall‘art. 138 della Costituzione, serve un patto politico, e una comune azione parlamentare che, per una volti esuli dall’ideologia e dal partito preso. E la Bicamerale è storicamente il miglior luogo di pacificazione legislativa. Per la prima volta ieri, in Parlamento, su questa epocale riforma non si sono levati mugugni; le opposizioni eran troppo occupate a criticare la Meloni su altro. Viva le Bicamerali, dunque. Che poi riescano davvero a partire, be’, è un altro paio di maniche.

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