L’editoriale di Vittorio Feltri che prende di petto tutti, col suo solito spirito irriverente, senza rispoarmiare nessuno
Siamo letteralmente ossessionati dal timore di offendere l’altro, ma non perché siamo diventati più sensibili, ma solo perché il virus del politicamente corretto ci ha bacato le menti. Adesso riconoscere il merito di qualcuno è ritenuto scorretto, in quanto chi non è meritevole potrebbe restarci male, poverino, ed essere quindi messo in difficoltà. Per lustri non abbiamo fatto ciarlare della necessità di e nel mondo del lavoro, sia pubblico che privato, per divenire ad una società più equa, sostituendolo a quello che è più in voga in Italia della tanto cara amata raccomandazione, e ora che il governo Meloni ha fatto ricorso a questo termine, dandogli rilievo, ecco che la sinistra è insorta. E il sostantivo “merito” è divenuto così una parolaccia.
Insomma, se Giorgia Meloni avesse denominato il ministero “della Istruzione e della Spintarella“, anziché “della Istruzione e del Merito“, avrebbe forse avuto nessuno aventi meno scomposte e nessuno si stracciato le vesti, essendo la spintarella più digeribile del merito, quando quest’ultimo è quello altrui e non il nostro.
Il linguaggio è cambiato e si ha quasi paura a dire tutta
Anche dirsi donna potrebbe essere offensivo nei confronti di chi è maschio ma vorrebbe essere femmina. Lo stesso vale al contrario. Solamente la neutralità del linguaggio – così dicono – non sarebbe insultante e lesiva della dignità della persona. Se dici “mamma”, offendi chi è papà. Se dici “papà“, offendi chi è mamma. Se dici “mamma e babbo” offendi chi non ha mamma e babbo, ma due babbi o due mamme. Se dici “nero” offendi chi è nero, come se avere la pelle scura fosse un handicap. Se sei magro offendi chi è grasso. Se sei bello, con la tua avvenenza, offendi chi è brutto. Tenendo di questa morbosa attenzione verso l’altro, si potrebbe concludere che la società sia migliorata negli ultimi decenni. Invece no.
Siamo più rabbiosi, più indifferenti, più chiusi, più superficiali. Il nostro perbenismo non è che una facciata con la quale occultiamo, peraltro malamente, il disprezzo profondo nei confronti dell’altro e il nostro irrimediabile egoismo. L’attenzione nei riguardi delle parole che adoperiamo non si traduce in attenzione nei riguardi del prossimo. È il trionfo della ipocrisia, che mi fa riflettere a volte su quanto siamo in miglioramento rispetto agli anni Settanta e Ottanta, quando ai nostri figli donavamo a Natale o in occasione dei compleanni il celebre Cicciobello, inversione anche colorata, il quale si chiamava “Angelo Negro“. E nessuno di noi si sognava di accusare di razzismo l’innocente bambolotto né chi lo aveva prodotto o venduto.