Domani 23 Febbraio 2023 sarà finalmente disponibile in sala l’attesissimo ritorno di Brendan Fraser sullo schermo in The Whale di Darren Aronofsky
Essere complessi, originali, non scontati, ricercare a tutti costi la raffinatezza nel contenuto e nella forma, questi sembrerebbero essere i requisiti necessari all’unanime promozione della critica nel contesto del cinema contemporaneo. Un cinema in cui abbiamo sperimentato tanto, forse tutto, e in cui, grazie alla avanguardie del secondo novecento, abbiamo avuto anche la possibilità di sfidare la canonica struttura del racconto epico, esplorando territori inediti della narrazione audiovisiva.
Difficile scegliere se dire qualcosa di nuovo, nel caso fosse possibile, o dire ciò che abbiamo sempre sentito, nella maniera più compatibile con le esigenze dell’emotività di masssa. Con The Whale (in uscita il 23 Febbraio 2023), Darren Aronofsky risponde senza vergogna a tale quesito, scegliendo di dirci ciò che già sappiamo, ma assicurandosi di dircelo nel modo più emozionante possibile. Se questa scelta sia eccessivamente asservita alle dinamiche di un mercato fagocitato dalla semplicità dei significati, lo lasciamo decidere a voi, tuttavia non possiamo esimerci dal notare stupefatti lo spiazzante talento di un regista straordinario. Pur percorrendo il sentiero più lineare possibile sul fronte della struttura narrativa, Aronofsky dona alla propria opera quella preziosa magia che è possibile ritrovare in un tramonto o in un cielo stellato, entrambi fenomeni già visti e prevedibili, ai quali è tuttavia difficile rimanere indifferenti.
Lacrime a buon mercato?
The Whale racconta la storia di Charlie (Brendan Fraser), un professore di letteratura obeso, costretto dalla sua condizione a svolgere le lezioni a distanza, con tanto di webcam oscurata per evitare di mostrare l’imponente stazza. Charlie ha una figlia (Sadie Sink), ha avuto una moglie (Samantha Morton), un’amante e un’amica (Hong Chau) ed è grazie al confronto con queste figure, che il film esplica i propri significati, accompagnando lo spettatore lungo un percorso di risoluzione piuttosto canonico.
Come precedentemente affermato, The Whale non tenta neanche distrattamente di emanciparsi dai collaudati meccanismi spettatoriali su cui gran parte della cinematografia commerciale affonda le proprie radici, ricalcando con decisione tutti quegli espedienti narrativi che da decenni permettono all’industria statunitense di vendere emozioni a buon mercato. Nonostante ciò, è nella squisita esecuzione di tali dinamiche narrative che The Whale conosce il proprio valore.
Ogni elemento convive in una disarmante armonia, alla quale non riuscirà a sottrarsi neanche lo spettatore più smaliziato: interpretazioni, trucco, dialoghi, fotografia, montaggio, ambientazione, regia, colonna sonora e, persino il formato video scelto, non conoscono la minima dissonanza audiovisiva, cullando lo spettatore in un inevitabile assopimento del senso critico e permettendo alla dirompente impalcatura drammaturgica messa in piedi da Aronofsky e colleghi, di penetrare fino in fondo, fino alla commozione. Il fatto che la pellicola si svolga esclusivamente nell’abitazione del professore, concorre inevitabilmente a nutrire, inquadratura dopo inquadratura, quel senso di oppressione necessario ad empatizzare con il protagonista. E’ in questo senso che l’adozione del formato 4:3 permette al regista di ottenere con relativa semplicità dei quadri filmici al limite della claustrofobia, in cui Fraser e la sua tuta prostetica ne dominano le conturbanti atmosfere.
Merita senza dubbio una menzione a parte la performance di Brendan Fraser, sulla quale si stanno consumando numerose polemiche. La maggior parte di queste riguardano la scelta da parte del regista di scritturare un attore in sovrappeso, a cui applicare una tuta di 130 kg, al posto di coinvolgere direttamente un’interprete obeso. Tale polemica ci pare talmente sterile e mal posta, che preferiamo soprassedere, soffermandoci sulla seconda critica mossa al casting di Aronofsky: molti stanno accusando il regista statunitense di aver scelto Fraser soltanto in virtù delle numerose controversie subite dall’attore negli ultimi anni, che lo hanno costretto ad allontanarsi dal grande schermo. Ciò, secondo i detrattori, avrebbe permesso al regista di assicurarsi, in sede di campagna pubblicitaria, la narrativa del ‘grande ritorno’, alla quale, soprattutto il pubblico statunitense, difficilmente resiste. Sebbene apparirebbe semplicemente ottuso negare tale meccanismo commerciale, è bene evidenziare quanto il vissuto di Fraser sia stato parte integrante di una performance tanto complessa, quanto emotiva, in cui la nostalgia per il passato del protagonista, rappresenta una parte fondante del doloroso percorso esistenziale rappresentato.