Capitano e leader della Roma, nell’era post Falcao e pre Totti, Giuseppe Giannini è stato l’idolo di un’intera generazione di tifosi giallorossi, un amore sempre corrisposto fino a quel giorno che doveva essere una festa di addio e invece si trasformò in un incubo
17 maggio del 2000, Roma, stadio Olimpico, il palcoscenico di quindici anni di carriera calcistica tutta vissuta con la maglia del cuore addosso. Per Giuseppe Giannini, idolo incontrastato, storico capitano per l’intera tifoseria giallorossa, sarà l’ultima recita. L’età che avanza, qualche incomprensione con la nuova dirigenza e il nuovo numero 10 che incanta domenica dopo domenica, hanno convinto “Il Principe”, come è da sempre soprannominato dalla sua gente, a cercare il crepuscolo della carriera altrove. Ma quella che doveva essere una bella festa con lacrime d’amore si è trasformata in lacrime di rabbia.
Elegante, carismatico, capitano, guida e orgoglio della Roma, simbolo anche sfortunato e controverso, Giuseppe Giannini ha segnato un’epoca. Debutta nel 1982 a 17 anni e vince, pur senza alcuna presenza in campo, lo scudetto del 1982/1983. L’anno dopo raccoglie l’eredità di Falcao ed entra in prima squadra. Ci resterà per quindici anni.
L’ultimo saluto alla propria gente
Il tempo passa inesorabile per tutti e Giuseppe Gianni, simbolo e capitano della Roma di fine secolo, ha capito che il suo di tempo, con la maglia che ha sempre amato, è giunto al capolinea. Vuole però salutare il suo popolo come si deve, un ultimo abbraccio lì dove quell’amore è stato sempre corrisposto: sul prato dello stadio Olimpico. E il 17 maggio del 2000 una partita tra la Roma Amarcord e la Nazionale più amata dagli italiani, quella del 1990, come ultimo ballo davanti alla sua gente. Tancredi, Prohaska, Voeller, Righetti, Maldera e Bruno Conti da una parte, dall’altra parte, con la Nazionale ’90, si presentarono giocatori come Baresi, Bergomi, Schillaci e Vierchowod. In panchina siedono, rispettivamente, Azeglio Vicini e Carletto Mazzone.
Il primo gli ha dato le chiavi del centrocampo azzurro già da giovanissimo. Il secondo è stato il suo ultimo tecnico alla Roma e ha spinto per averlo anche per un rapido inframezzo a Napoli. Una grande festa d’addio niente di più. Il primo tempo si concluse 1-1, gol di Voeller e Carnevale, Giannini lo aveva giocato con la maglia dell’Italia e stava per indossare per l’ultima volta quella tanto amata della sua Roma, ma non tutti si erano resi conto che l’aria non era per tutti quella della grande festa.
Appena tre giorni prima, il 14 maggio di quel 2000, la Lazio ha vinto il più rocambolesco scudetto della storia del campionato italiano, ma forse del mondo, un trionfo arrivato a sorpresa dopo praticamente tre tempi, con il diluvio di Perugia che interrompe la partita contro la Juve alla fine del primo tempo, mentre la Lazio spazza via la Reggina. Quando viene portato a termine il secondo tempo tra Perugia e Juventus, all’Olimpico la partita è terminata e tutti sono rimasti ai propri posti ad ascoltare alla radio le notizie dal Curi. Il resto è storia, il gol di Calori consegna uno scudetto incredibile alla squadra di Eriksson facendo impazzire la sponda biancoceleste di Roma.
Ovvio che sugli spalti dello stesso stadio la rabbia e la frustrazione, a distanza di soltanto 72 ore, è tanta e, quando all’improvviso un cancello della curva sud viene inspiegabilmente aperto, la gente irrompe sul terreno di gioco e distrugge tutto quello che può distruggere. Pali e traverse delle porte abbattute, bandierine dei calci d’angolo spezzate, panchine ribaltate, zolle intere del prato divelte, la festa che doveva essere si è trasformata in tragedia. Dalla curva intanto compare uno striscione improvvisato con la scritta “Scusa”, ma è troppo tardi, la partita di addio al calcio del loro idolo è ormai rovinata per sempre. Il Principe in lacrime prende il microfono e rivolgendosi al suo popolo afferma “Non doveva finire così”.