Asteroid City, ultima fatica di Wes Anderson, è uscito nelle sale italiane e, oltre ad aver deluso in termini di botteghino, pare aver diviso tanto la critica, quanto il pubblico.
Asteroid City, proprio come French Dispatch nel 2021, sembra confermare che Wes Anderson, pur nella sua incontestabile gradevolezza estetica – che ne ha realmente sancito la popolarità tra i cinefili – non ha più molto da dirci.
Il film, perlomeno, sta riuscendo a dividere in fase di giudizio, tra chi lo reputa una pellicola straordinariamente delicata e raffinata e chi, come chi sta scrivendo questa recensione, crede più prosaicamente che sia stato soltanto uno sterile esercizio di stile.
Wes Anderson si perde in se stesso
Può succedere… può succedere anche ai grandi artisti di divenire vittime del proprio personaggio o persino dei propri capolavori. L’assenza di una trama vera e propria potrebbe apparentemente spiegare perché questo film ci abbia lasciato così poco una volta comparsi i titoli di coda, ma la verità è che si tratta di un falso problema. E’ vero, la mancanza di un plot reale potrebbe disorientare gran parte degli spettatori, ma, di fatto, è possibile intrattenere vaste fasce di pubblico anche se private di una strada chiara e delineata a cui fare riferimento ad ogni minuto del film. La realtà, è che il problema più concreto di questa ultima fatica di Anderson, risiede nel metodo stesso adoperato dal regista di Grand Budapest Hotel. Il tentativo di portare su schermo un’opera che funga contemporaneamente da meta-cinema e meta-teatro, rende davvero faticoso un coinvolgimento emotivo.
La scelta di far recitare gli attori con fare posato e, soprattutto, rendendo fastidiosamente didascalica ogni possibile sfumatura emotiva, aliena molto velocemente lo spettatore, causando un controproducente sentimento di straniamento, malamente compensato da un’impalcatura formale sontuosa. Perché si… a prescindere dalle eventuali disamine critiche, non si può negare che Asteroid City sia una pellicola esteticamente curata. Anderson non ha intenzione di uscire dal proprio personaggio, fatto di simmetrie, colori pastello e cornici filmiche ossessivamente pulite, scegliendo di soddisfare a pieno le aspettative di tutti gli andersoniani. Inoltre… se si trattasse di uno di quei film dotati di fecondi spunti interpretativi, il gioco varrebbe la candela… tuttavia, in questo caso, ci troviamo di fronte alla semplice possibilità di speculare, più che di interpretare. La possibilità di speculare allegramente su ogni singolo elemento comparso su schermo, può certamente divenire un esercizio stimolante ma, in quest’ottica, si rischia pericolosamente di scadere nell’iper-interpretazione di un testo cinematografico, attività che, francamente, sembra avere poco a che fare con l’utile terreno del dibattito cinematografico.