Davide Marra è uno degli streamer più famosi d’Italia, con decine di migliaia di followers su Youtube, Twitch e Instagram. Ecco cosa ci ha raccontato della sua visione del cinema, nell’intervista esclusiva per Notizie.com.
Da sempre visceralmente appassionato di cinema, Davide Marra (detto Mr. Marra), è uno degli streamer di Twitch più famosi d’Italia. Il suo lavoro consiste principalmente nella conduzione, coadiuvato da due colleghi, del Cerbero Podcast (trasmissione d’attualità in diretta, tra le più seguite del web). Nonostante Davide sia riuscito ad intrattenere il pubblico del Cerbero con sporadici approfondimenti sul cinema, possiede anche un suo canale YouTube, interamente dedicato alla critica cinematografica.
Ciao Davide, la prima è una domanda fondamentale per comprendere la tua visione della critica cinematografica: Ti vedi come un critico?
Una volta il critico era una mansione legata a dei meccanismi lavorativi molto precisi, quindi tu facevi il critico, scrivevi per delle riviste e avevi questa specie di patentino. Alcuni erano anche giornalisti, ma in generale c’era una sorta di percorso scritto. Con il web, dei semplici spettatori, opinionisti o anche persone in possesso di una grande cultura cinematografica, hanno cominciato ad esprimersi e fare critica di un film. Quindi, se prendiamo la parola critica in maniera più ampia, possiamo definirmi tale; se invece ci riferiamo al mestiere di critico, con i relativi compiti, una scuola dietro e una deontologia professionale precisa, io non posso essere definito tale.
E come vedi il futuro della critica cinematografica?
Molti hanno ad esempio canali YouTube con grande seguito, mentre chi lo fa tramite articoli, senza una base di notorietà su cui appoggiarsi, guadagna una miseria. Ad esempio, la mia migliore amica da sempre (Giulia), ha intrapreso il canonico percorso da giornalista di cinema, ma il futuro che le si prospetta è… Boh… continuare a pubblicare pezzi a 30 euro l’uno quando ti va bene? Non è più sostenibile. Quindi per me è un lavoro che professionalmente, per come era in passato, non esiste quasi più: diventi una specie di schiavetto di alcune testate. L’aspetto per cui potrebbe essere utile, è quello delle connessioni: essendo un apparato vecchio quello del cinema, hai ancora bisogno di passare dall’addetto stampa per un intervista e, da giornalista, diventa più semplice. Se io fossi stato all’interno di questi meccanismi sarei riuscito ad intervistare alcuni registi che amo (Verdone, Sorrentino), che in questo momento sono più difficili da contattare. Gli unici a cui posso avvicinarmi sono quei personaggi meno legati a questo vecchio apparato burocratico, con la mente aperta e disposti a buttarsi.
Conoscendo i libri accademici stabiliti per acquisire il cosiddetto patentino da critico e, avendo visto su quali libri ti sei formato, ho l’impressione che la preparazione universitaria e quella da autodidatta possano addirittura sovrapporsi. Che ne pensi?
Hai ragione, ma c’è una differenza sostanziale… io ci ho messo quasi vent’anni. Quindi, fare un percorso costruito da persone che ne sanno, avendo dei professori competenti, ti velocizza inevitabilmente il processo. Ho sempre coltivato la mia passione senza un secondo fine e anche adesso è il mio lavoro parzialmente, perché il mio vero lavoro è il Cerbero Podcast. Di conseguenza non avevo fretta, ma se uno vuole farlo come mestiere deve ancora passare per un percorso accademico, secondo me. Il lato negativo dell’università è che si rischia di soffocare il lato creativo del critico, rendendo lineare il processo analitico, quando in realtà il cinema, essendo un campo artistico, deve lasciare un pò di libertà creativa.
I migliori esponenti dell’odierno panorama cinematografico, devono inevitabilmente prendere a piene mani dal passato o c’è ancora qualcuno che innova, facendo del gran cinema?
Secondo me non si può creare dal nulla. Quindi di base crei sempre partendo da qualcos’altro. L’importante è che ci sia vitalità in ciò che si crea, perché l’originalità è un concetto anche abbastanza malleabile. Il lavoro di costruzione più originale è avvenuto nel passaggio dalla fotografia al cinema attraverso il montaggio e, da Griffith in poi, si sono stabiliti i canoni più adatti alla comprensione del cinema all’occhio umano. Oggi, per quanto riguarda l’originalità, si deve sempre guardare al passato, cercando di aggiungere qualcosa o, anche, fare degli omaggi, che non siano vacui e inutili. L’importante è non essere pigri e, nonostante l’innovazione sia un concetto difficile da definire, te ne accorgi quando qualcosa è derivativo ma potente. Ad esempio un Peter Jackson, che veniva dalla scuola di Sam Raimi, è un autore diverso dal suo mentore. In tutte le arti nulla si crea e nulla si distrugge.
Considerando la grande importanza che riservi alla componente erotica nella tua vita, qual’è l’autore, sia contemporaneo che del passato, che ti eccita di più?
David Cronenberg, ad esempio, mi fa riflettere molto sulla componente sessuale, senza farmi eccitare e, anzi, mi crea una sorta di disgusto con la sua sessualità quasi raccapricciante. Questo te lo citerei come esempio di una grande componente sessuale, legata però all’orrore. Per citare un autore italiano, ti posso dire che Luca Guadagnino mi piace molto per come lavora sui corpi. Chiamami col tuo nome (2017), infatti, per me è un film molto erotico: nonostante io non abbia mai avuto rapporti con un uomo, non fatico a rivedere in quelle situazioni sentimental-sessuali la mia vita. La sessualità che è uscita fuori da quelle inquadrature era portentosa per me. Guadagnino ha un occhio onesto e non legato alla visone maschio-centrica dell’erotismo, come per esempio nel porno.
E’ ovvio che vedendo una scena esplicita di sesso tra due donne (La vita di Adele), mi eccito, ma è un erotismo più facile e meno raffinato. Del passato sicuramente Godard con Il Disprezzo, un film notevole, o anche Paul Thomas Anderson, che adotta un’erotismo più suggerito che mostrato. E’ più difficile far percepire l’erotismo, rispetto al mostrarlo e, per renderlo esplicito, devi essere bravo come un Gaspar Noè.
E’ fondamentale fruire della rappresentazione cinematografica attraverso la sala?
Si. Per me un film esiste nel momento in cui è in sala, altrimenti parliamo di altro. Ma dipende da come costruisci un opera: se un opera è pensata per la sala, vederla in un altro contesto, leva molto all’opera. Sarebbe come paragonare un concerto dal vivo, al video su YouTube del concerto, non è la stessa esperienza. E’ molto importante secondo me, in questo periodo storico in cui siamo perennemente distratti, avere due tre ore di concentrazione imposta, ma penso che la sala sarà sempre più esclusiva per quelle produzione focalizzate sull’aspetto visivo (Dune, Marvel Cinematic Universe). L’home video si sta concentrando su altre componenti e mi dispiace perché ovviamente sono un fan della sala.
Hai mai pensato di metterti dietro una macchina da presa o alla prese con una sceneggiatura di un film?
No, ho troppo rispetto per il percorso che questi addetti fanno. Ci vuole una gavetta per tutto e, non avendola fatta, non ne ho i mezzi. Sarebbe come dire, domani piloto un astronave… non ne sono in grado. Ho studiato altro nella vita e faccio altro.
Continua a imperare la diatriba tra la pellicola e il digitale. Secondo te ha ancora senso?
Credo che sia a discrezione del regista. Sono un pò un feticista della pellicola, ma tali feticismi sono paragonabili a quelli del vinile per la musica. La pellicola evoca delle sensazioni e alcuni registi si esprimono meglio utilizzandola ancora (Tarantino, Nolan), di conseguenza è giusto che continuino così. In generale la resa del digitale è praticamente perfetta, quindi da un mero punto di vista tecnico cambia poco, rimane un gusto personale.
Forma e contenuto sono fatalmente legati o prediligi una delle due nella fruizione di un film?
Io dico sempre che spesso la forma è il contenuto. Il problema arriva quando la forma non porta ad un contenuto, svuotandosi di valore. La definizione del valore della forma è impossibile. Facendo un’esempio recente, The Batman ha un valore solo in virtù della sua forma, quindi non è un disvalore: l’intero apparato tecnico porta delle sensazioni che sono di fatto contenuto.
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Alle volte però si abusa, perché quando diventa una forma fine a se stessa e quindi un’autocelebrazione dello stesso autore, quel tecnicismo perde qualunque valenza da un punto di vista narrativo e di costruzione dell’ambientazione, divenendo semplicemente un modo per far vedere quanti soldi si hanno o quanto si è bravi ad utilizzare un Dolly o un piano sequenza.