I dem non si accontentano delle parole della Meloni sul Ventennio, adesso vogliono che rinneghi Orban e che tolga la fiamma dal simbolo
Altro giro, altra corsa. Ora che Giorgia Meloni ha ripudiato il fascismo e le “infami leggi razziali“, per giunta al cospetto del mondo e in tre lingue oltre all’italiano, con tanto di riconoscimenti pubblici arrivati con tempestività da ossi duri ma non ottusi come Carlo Calenda e perfino dalla corrispondente italiana di Bloomberg television, Maria Tadeo, che ne ha lodato l’assenza di ambiguità e la rottura netta rispetto alle precedenti elezioni del 2018. In una nazione matura, scrive il quotidiano Libero, e composta non accadrebbe nulla, anche perché la leader dei Fratelli d’Italia è nata e cresciuta politicamente in un partito, Alleanza nazionale, che sia pure un po’ frettolosamente i conti con il “male assoluto” li aveva fatti a Fiuggi nel 1995, così da portare di lì in poi Gianfranco Fini alla vicepresidenza del Consiglio e la “sua” Giorgia al ministero della Gioventù con il corredo necessario di un giuramento sulla Costituzione antifascista del 1948.
Siccome l’Italia è anche la terra del rimorso e delle coscienze infelici gosciste, ecco però che il CLN autoproclamato da politici e giornali antipatizzanti cerca subito di riprendersi dall’improvviso smarrimento invocando altre abiure e misconoscimenti più attuali, diciamo, per esempio nei confronti di quei tipacci come il premier ungherese Viktor Orbán (ex membro inveterato del Ppe…) e i conservatori polacchi di Jaroslaw Kaczynski. Oppure, poiché un’abiura tira l’altra e un’altra ancora, si pretende che Meloni spenga hic et nunc la fiamma missina contenuta nel simbolo di FdI, come hanno chiesto ieri i dem Laura Boldrini, Andrea Romano e Andrea De Maria (paradosso: assieme all’edera repubblicana, si tratta dell’ultimo residuato iconico della democrazia dei partiti sorta nel Dopoguerra).
I monopolisti dell’antifascismo perdono di colpo la principale arma delle loro campagne elettorali
Al momento accontentiamoci del fatto che il salto di qualità dalla vocazione anti sistemica alla cultura di governo sembra ormai un fatto acquisito e che la legittimazione della destra abbisogna, semmai, di una più solida, laica e lungimirante strategia continentale orientata magari alla valorizzazione dell’Europa Latina prefigurata dal Trattato del Quirinale siglato da Emmanuel Macron e Mario Draghi con Sergio Mattarella pronubo. I monopolisti dell’antifascismo perdono di colpo la principale arma delle loro campagne elettorali, il peluche griffato Anpi con il quale dormire sogni preelettorali sereni e barricaderi, la ragion d’essere del frontismo repubblicano evocato come l’ultimo argine prima del ritorno delle camicie nere in coincidenza con il centenario della marcia su Roma.
La lista è lunga, ma basta pensare ai leader del nuovo fronte progressista (Enrico Letta e Nicola Fratoianni), al Gruppo Gedi e alle sue potenti macchine da guerra mediatica (a partire dai direttorissimi di Repubblica e Stampa, Maurizio Molinari e Massimo Giannini), a un pezzo non trascurabile della tivù pubblica e privata e al bel mondo degli intellò – loro sì nostalgici – perennemente attovagliati sulla terrazza del procurato allarme verso l’incombente Urfascismus coniato da quel genio immaginifico di Umberto Eco. Ah che meraviglia, adesso che antifascisti lo siamo tutti, ciascuno con la propria casacca ma nessuno escluso, saperci finalmente disoccupa