Parla al CorSera l’architetto Boeri che spiega come il paese può diventare un simbolo per il riscatto a sei anni dal terremoto
Sei anni fa era il luogo del dolore. Lì, erano distese una accanto all’altra le vittime, per l’ultimo saluto con i loro cari. Oggi l’area dell’Istituto don Minozzi è diventata il luogo simbolo di un’Amatrice che ripensa al futuro. E grazie a un progetto visionario di Stefano Boeri, ispirato dal vescovo uscente di Rieti, Domenico Pompili, e del parroco don Savino, sta rinascendo, come una fenice di pietra, dalle macerie e lo spiega al Corriere della Sera. Architetto Boeri è così? “Proprio così. L’Istituto don Minozzi era un complesso da 75 mila metri cubi. Sono rimaste in piedi solo la chiesa e la fattoria. Da subito abbiamo ragionato su cosa fare dell’enorme quantità di macerie. E ci è venuta l’idea innovativa di riutilizzarle non solo per le parti calpestabili ma anche per le facciate“. Nel centro storico le hanno portate via senza segnare i confini delle case. Voi fate l’inverso? “È interessante per l’economia circolare del cantiere. Ma anche per il forte valore simbolico: il don Minozzi dalla sua stessa materia vede rinascere il proprio futuro“.
Amatrice può davvero riavere un futuro? “Certo, io lo vedo. La bellezza di questo altopiano circondato dai parchi è unica. Ha una posizione geografica straordinaria: nel centro esatto dell’Italia, a distanza più o meno uguale dalle due fasce costiere. Un luogo dove c’è una cultura dell’agroalimentare, del food. E la sfida è fare progetti come questo, in grado di far ripartire tutto“. Come? “Qui arriveranno 600-700 giovani. A vivere, studiare. Quando Pompili, che è il vero eroe di questa ricostruzione, me lo ha proposto mi ha emozionato. È un po’ come rivedere i ragazzi che don Minozzi durante la guerra ha portato qui e gli ha dato una dignità attraverso il lavoro“. Come è strutturato? “Sono quattro corti: lo spazio architettonico della Comunità, quella dell’accoglienza, già da primavera potrebbe ospitare i ragazzi, ma ha anche un teatro e un museo dove recupereremo i grandi affreschi dell’Istituto. Poi c’è quella del silenzio e della preghiera. Quella civica, con gli uffici comunali, e quella delle arti e dei mestieri con laboratori, spazi per degustazioni, coltivazioni idroponiche“.
“Da uno scatto tutto questo è diventato realtà”
Qual è il suo rapporto con questa terra dolente? «Siamo stati qui a settembre 2016, per la sfida di ricostruire subito uno spazio per i ristoranti crollati. E la notte di Natale 2016, il primo dopo il sisma, consegnare questa sala mensa, nuova, con le luci è stato incredibile. Non sono andato più via. E quando don Savino e Pompili mi hanno proposto il don Minozzi sono stato felice di rimanere”. La ricostruzione langue? “All’inizio sì, era così. Con Legnini c’è stato uno scatto. Io spero che nei prossimi tre anni si possa vedere un nuovo centro storico». C’è il pericolo di una ricostruzione «marmellata”.
Edifici troppo simili? “Sì perché è comodo progettare livelli analoghi con materiali simili. Noi a Castel Sant’ Angelo sul Nera abbiamo posto dei vincoli per evitarlo. Serve un’idea urbanistica. Non so se ad Amatrice c’è ancora“. Cosa insegna il terremoto? “Ho lavorato al Ponte Morandi, in Albania e ora sono a Irpin dove il 75% degli edifici è a terra e ragioniamo su cosa fare. Ma il terremoto è diverso“. Perché? “È il tuo luogo che ti tradisce. Questo genera spesso due reazioni: andare via o volere tutto com’ era. Una richiesta, quest’ ultima, che la sicurezza antisismica, che impone almeno strade più larghe perché un edificio non collassi sull’altro, rende un’utopia. Lo vediamo ad Arquata“. Lei progetta Arquata del Tronto spostata. Come? “Non identica ma autentica. È complesso, ascoltiamo molto i cittadini. Ma è quello il valore da difendere“.